Forse dovremmo calmarci un attimo e riflettere.
Ad esempio, io vorrei sapere quante e quanti, tra le persone che oggi sfornano senza sosta post a sostegno della decisione di vietare il costume da bagno integrale (il cosiddetto burkini), presa da alcuni comuni francesi e avallata dal capo del governo, si occupavano della faccenda anche nei giorni scorsi. A giudicare dalla mia frequentazione dei social, nessuno.
Tutti, però, siamo improvvisamente esperti in merito alla questione, e portatori di una battaglia di civiltà: come ha detto Manuel Valls, il premier francese, «il burkini è incompatibile con i nostri valori».
Ora, che questo tipo di costume sia legato a una visione della donna e dei ruoli sociali che privilegia l’uomo e impedisce la parità di diritti e di opportunità tra i sessi mi pare un’ovvietà.
Che il burkini possa risultare il frutto di un’imposizione, dovuta sia all’elemento culturale e religioso, sia più direttamente alla coercizione famigliare, mi sembra altrettanto scontato.
Saltare alla conclusione che – in ogni caso – si tratti dell’imposizione di un genitore, un marito o un imam retrogrado, e che la donna musulmana altro non aspetti che l’aiuto della legge occidentale per strapparsi il “lenzuolo” di dosso e mostrare il proprio corpo mi sembra invece una falsità.
Del resto, la legge non può decidere in che maniera una donna (o, se è per questo, un uomo) si debba vestire, se si vuole evitare la prevaricazione dello Stato sulla sfera personale dell’individuo: in base a quale ragionamento il legislatore potrebbe presumere che ogni donna che decida di indossare il burkini si senta obbligata a farlo? E se l’imposizione è da intendere in senso più lato come di tipo religioso, per quale ragione non si vuole ammettere il diritto di una donna di seguire certe regole, finché non si scontrano con i diritti degli altri, nel rispetto delle leggi della democrazia?
Badate bene: a me il costume integrale non sta simpatico per niente e certamente non ha nulla a che fare con la mia visione della donna e del suo ruolo; eppure, con la scusa della lotta al fondamentalismo religioso, ci stiamo trasformando tutti in integralisti laici, incapaci di riconoscerci nei valori di tolleranza e rispetto che dovrebbero fare la differenza tra le società democratiche e quelle autoritarie.
Per “difenderci” (da cosa, nella fattispecie, sarebbe legittimo domandarlo), siamo pronti a snaturare ciò che di meglio ha prodotto l’occidente in fatto di valori, quei valori ai quali oggi si richiama chi vuole imporre, per legge, un abito diverso da quello imposto da altre leggi. In tutto questo, la donna continua a essere soggetto passivo, perché non ha voce in capitolo e non può far valere la propria volontà: una “legge” culturale è sostituita, dall’alto, con una legge pubblica.
Auspico anch’io che certe imposizioni culturali finiscano, ma non sono disposto a rinunciare ai principi sui quali fondo la grandezza di un modello libero: la libertà non può essere imposta (e 15 anni di guerre “umanitarie” dovrebbero avercelo insegnato); deve essere conquistata giorno dopo giorno e, di necessità, in maniera attiva.
La notizia positiva è che molte donne musulmane possono oggi andare al mare, burkini o non burkini, in mezzo a tante altre donne che scelgono costumi di tipo completamente diverso. A poco a poco, la loro condizione cambierà, se lo vorranno, per il confronto stesso con le altre, per la conoscenza reciproca che si potrà sviluppare, e se sarà questione di guadagnare maggiore libertà, forse non sarà limitata soltanto al tipo di abbigliamento.
Io non vorrei che invece le ordinanze dei sindaci francesi avessero l’unico effetto di “vietare” il mare alle dirette interessate, costringendole, per non andare contro la propria coscienza o contro divieti imposti da altri, a restare a casa, smettendo di frequentare la spiaggia, perdendo un’occasione di incontro.
Sostituire un’imposizione con un’imposizione di segno opposto non mi sembra la maniera migliore per andare incontro alle esigenze di chi dell’imposizione è vittima. Mi sembra piuttosto una maniera per liberare le spiagge da immagini non gradite ai fanatici della difesa della nazione, minacciata – come si sa – dall’uso del burkini.