Lo dico subito, così ci chiariamo: in termini assoluti, l’idea di tenere aperte le scuole in estate è positiva. È positiva così come sarebbe positivo avere tutta l’estate biblioteche aperte, cinema pomeridiani di quartiere, centri di aggregazione giovanile. E siccome so bene che le biblioteche fanno quello che possono con i pochi fondi a disposizione, che i cinema di quartiere non esistono più o in ogni caso non fanno programmazione di livello alto dedicata a bambini e adolescenti, che spesso i centri di aggregazione si riducono a strutture confessionali (parrocchie, oratori) o centri estivi a pagamento, allora l’apertura estiva delle scuole è in qualche modo del tutto logica, in uno Stato che voglia fare il suo dovere e fornire strumenti culturali e occasioni di crescita ai cittadini più giovani.
In termini assoluti, l’apertura estiva delle scuole andrebbe in questa direzione. In termini pratici bisogna vedere che significa. Ma andiamo con ordine.
Con la fine dell’anno scolastico partirà il piano nazionale «La Scuola al Centro», finalizzato a prevenire la dispersione scolastica nelle aree a rischio di quattro città metropolitane: Roma, Milano, Napoli e Palermo. Allo scopo sono stati stanziati, con il decreto ministeriale n. 273 del 27.04.2016, dieci milioni di euro, destinati alla realizzazione «di un programma sperimentale di didattica integrativa e innovativa» in orario extra-curricolare nelle istituzioni scolastiche statali di ogni ordine e grado che ne abbiano fatta richiesta, presentando l’apposito progetto. Per ogni istituzione che ne abbia diritto è previsto un finanziamento statale fino a 15mila euro.
Una buona notizia? Sembrerebbe di sì, per quanto il mio naso non riesca a non storcersi di fronte a espressioni come «programma sperimentale di didattica integrativa e innovativa». Che cosa si intende di preciso? Quale didattica si vorrebbe seguire, l’estate, per combattere la dispersione scolastica? A sentire il ministro, non si tratterebbe di studiare, ma di fare «sport, musica, teatro, laboratori artistici. Tutto quello che potrebbe interessare i ragazzi, farli divertire e toglierli dalla strada» (citazione tratta dal «Corriere della Sera»). Sono queste direttive ministeriali? O è il semplice buon senso, che suggerisce che con l’analisi grammaticale la lotta contro la dispersione scolastica sarebbe persa in partenza? E cosa organizzeranno realmente le scuole? Potrebbero sembrare domande poco utili, volte a polemizzare a ogni costo, e allora voglio per una volta apprezzare e promuovere l’iniziativa del governo, provando a fidarmi delle «Scuole al Centro», malgrado sappia che le scuole, a causa della penuria di fondi, sono a volte fin troppo pronte a buttarsi su qualsiasi finanziamento, indipendentemente dalla bontà del progetto, proprio o di enti incaricati di mettere in atto la «didattica integrativa e innovativa». Meglio sarebbe garantire alle scuole i fondi ordinari necessari e non mettere le istituzioni nella condizione di disputarsi i 15mila euro “estivi”, ma questo – in parte – è un altro discorso.
«La Scuola al Centro» è un progetto preciso, con finalità circoscritte e dichiarate. «La Scuola al Centro» può avere un senso, come ritengo avrebbe un senso tenere aperti i locali scolastici l’estate per attività organizzate e gestite direttamente da alunni o ex alunni, sia che si tratti di studiare insieme, sia che si voglia supplire, grazie alla disponibilità dell’aula video, all’assenza del cinema di quartiere cui si faceva riferimento in apertura di articolo, sia che si voglia utilizzare anche in estate la biblioteca scolastica. Certo, bisognerebbe avere un’aula video degna di questo nome, o una biblioteca non solo fornita, ma addirittura dotata di un bibliotecario, e servirebbe personale tecnico e docenti volontari (ma non per questo non retribuiti) per garantire la tutela dei minori e delle strutture. E certo, sarebbero necessari edifici a prova di afa, perché da giugno a settembre in molte aree del Paese frequentare i normali locali scolastici significherebbe entrare in una sauna. L’apertura estiva delle scuole richiederebbe, insomma, investimenti ingenti (auspicabili, necessari anche per il resto dell’anno, ma allo stato delle cose piuttosto inverosimili), da spalmare su tutte le istituzioni scolastiche, in tutto il territorio nazionale.
Quanto detto finora si è concentrato sull’ipotesi di utilizzare i locali scolastici in estate per fornire un’offerta in più a quei ragazzi che, durante le vacanze, rimangono in città o che si trovano inseriti in contesti svantaggiati. Quanto detto finora si è concentrato su ipotesi di attività totalmente volontarie, senza prendere in considerazione l’idea di estendere a tutti, obbligatoriamente, la durata dell’anno scolastico. L’aver sentito più volte ministri della Repubblica affermare che tre mesi di vacanza (su 12!) «sono troppi», mi porta tuttavia a precisare che l’apertura dei locali a giugno e luglio non può e non deve diventare il pretesto per rubare ai nostri ragazzi i giorni consacrati all’ozio e al far niente. Il discorso è lungo, mi preme, e intendo ritornarci sopra. Chiunque sia abituato a stare in una classe sa bene in quale stato alunni e insegnanti giungano verso la fine di aprile. Chiunque viva la scuola, anno dopo anno, sa perfettamente che le ultime settimane di lezione lavorare è difficile, che gli alunni si concentrano con più difficoltà. Chiunque abbia esperienza della vita in generale sa che le esperienze rilevanti non sono solo quelle che derivano da situazioni organizzate, e che nell’ottica della formazione di adulti responsabili e competenti è bene permettere ai ragazzi di costruire da soli i propri percorsi e le proprie esperienze, magari nelle giornate lunghe dell’estate, quando si può stare fuori, stare in giro, non necessariamente per frequentare “cattive compagnie”, non necessariamente per “perdere tempo”, perché davvero non è tutto tempo perso tutto il tempo che non si è messo “a profitto”. Davvero, al di là di qualche singolo progetto, le parole di certi ministri mi fanno pensare che si voglia organizzare e monetizzare il tempo dei più giovani, come se fosse un bene, come se fosse un diritto, come se non lo facessimo già abbastanza.
Come ho anticipato, il discorso è lungo, mi preme, e intendo riprenderlo. Per ora mi interrompo.
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