Per favore, non vi astenete dal votare al referendum del 17 aprile.
Non vi astenete qualunque cosa pensiate del quesito, dell’opportunità o meno di trivellare i fondali marini alla ricerca di gas e petrolio, delle modalità attraverso cui si è svolta la campagna referendaria.
Se il quesito vi convince, votate Sì; se non vi convince, votate No. In un caso come nell’altro, recatevi alle urne.
Che cosa penso io – che voterò Sì, sperando nel conseguimento del quorum – è riassunto molto bene in questo articolo, al quale rinvio per una buona sintesi delle ragioni di chi non vuole le trivelle.
Ma il punto non è questo.
Il punto principale è l’istituto referendario, che in Italia costituisce una delle pochissime occasioni per esprimere direttamente la propria volontà di cittadini. Uno strumento da tenere ben stretto in un momento in cui diffusa è la vulgata per cui ci vuole un governo decisionista, capace di “fare“ (fare cosa sembra non importare più di tanto), indipendentemente dagli orientamenti della popolazione, come se il mandato elettorale fosse una delega in bianco.
Alberto Asor Rosa, in un bell’articolo pubblicato sul manifesto dell’8 aprile, incentrato sul ruolo che i prossimi referendum (quello del 17 e quelli che verranno, sulla revisione della Costituzione) giocheranno nelle «sorti del Paese», scrive che chi invita all’astensione «conta sulla stanchezza, la disaffezione, lo scontento» dei cittadini per boicottare la consultazione popolare.
«Non s’è mai visto in questo Paese un governo che inviti la cittadinanza a non andare a votare a una forma di qualsiasi consultazione elettorale», afferma. Magari fosse! Quante sono ormai le consultazioni referendarie alle quali chi riveste ruoli istituzionali ha risposto invitando i cittadini a non votare? Il fatto è che il referendum è uno strumento potente, come dimostrano le consultazioni del 2011, che hanno bloccato per la seconda volta le smanie nucleari dell’Italia, e rallentato fino a oggi il processo di privatizzazione dell’acqua. Anche nel 2011 il governo in carica aveva risposto all’appuntamento democratico invitando i cittadini a disertare le urne e «andare al mare».
Altri due esempi di invito all’astensione riguardano altrettanti referendum a carattere regionale, svoltisi in Valle d’Aosta nel 2007 e nel 2012 – due referendum propositivi in questo caso – ai quali il partito che da decenni i valdostani identificano con le istituzioni regionali, l’Union Valdôtaine, rispose con l’invito all’astensione, fino ad affermare pubblicamente che «non votare è una scelta».
In occasione del secondo di questi referendum (contro la costruzione in Valle d’Aosta di un impianto a caldo per l’eliminazione dei rifiuti) avevo scritto una lettera aperta all’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, lettera sottoscritta da più di 200 persone nel giro di pochi giorni, nella quale chiedevo quale fosse la posizione del Garante della Costituzione circa l’invito all’astensione.
Uno dei sottoscrittori aveva ricevuto una risposta cartacea da parte del Quirinale, nella quale si insiste sul valore costituzionale del voto, definito «comportamento qualificante», necessario e socialmente rilevante. Senza fare distinzioni tra il referendum e altri tipi di elezioni, la risposta del Quirinale ricorda che il voto «viene considerato un dovere» civico del cittadino (art. 48 Cost. it.), per quanto il suo adempimento sia «affidato più alla coscienza, appunto civica, degli elettori che alla obbligatorietà del relativo comportamento, non assistita da efficaci sanzioni giuridiche».
L’astensione è dunque registrata come possibilità, e tuttavia degradata a comportamento non «qualificante», in opposizione al carattere di «necessità» e «rilevanza sociale» del voto. Può insomma capitare che l’elettore scelga di non recarsi alle urne senza essere colpito da sanzioni giuridiche, ma la sua scelta si contrappone all’obbligatorietà di ciò che si profila come «dovere civico». Un comportamento tollerato, dunque, non un «diritto» dei sistemi democratici, come pretendeva e pretende certa propaganda.
La lettera, purtroppo, non ha risposto alla mia domanda sulla legittimità dell’invito all’astensione da parte delle forze politiche. Forse sarebbe stato sufficiente citare il Testo unico sulle elezioni, che all’articolo 98, ripreso dalla legge che regola i referendum, vieta ai pubblici ufficiali di interferire con le operazioni di voto. È infatti punito con una pena detentiva da 3 mesi a 6 anni qualunque pubblico potere «si adoperi per indurre gli elettori all’astensione».
Premesso tutto questo, impedire il conseguimento del quorum è senz’altro più facile che far vincere il No. Ma il desiderio di far fallire un referendum ci riporta al grande potere contenuto nell’istituto referendario. Uno strumento da depotenziare, secondo i fautori del decisionismo dall’alto, da tenersi stretto, invece, se si vuole contrastare la deriva autoritaria del Paese. E non c’è modo migliore di neutralizzare i referendum (tutti i referendum) che creare disinteresse per l’appuntamento, soffiando sul fuoco della non partecipazione alla vita pubblica. Che è poi il contrario di ciò che qualsiasi istituzione pubblica dovrebbe ricercare.
E allora andiamoci al seggio il 17 aprile. A votare Sì o No non importa (faccio finta che non mi importi), ma in ogni caso a esprimere la nostra volontà. Aspettando i referendum che verranno, innanzitutto quelli costituzionali (per i quali il quorum non è previsto), e poi quelli che ancora devono essere approvati, come quelli contro gli aspetti più degradanti e iniqui della legge 107, la pessima scuola voluta dal governo, per presentare i quali sta partendo la raccolta delle firme.
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Infine, anche se mi sono dilungato abbastanza: non è vero che Sì o No fa lo stesso, e io non posso che consigliarvi di nuovo la lettura di questo articolo.