Affondare i barconi – ci dicono – è la nuova frontiera («frontiera»: tutto un programma) del salvataggio in mare. Affondare i barconi vuoti, precisano; prima che partano. Utilizzando i droni, magari, i velivoli senza pilota, armati, sopra i cieli della Libia. E poi si stupiscono del fatto che la Liba storca il naso all’idea di vedere bombardato il proprio territorio nazionale, sia pure al nobile fine di colpire gli «scafisti», i nuovi mostri da dare in pasto all’opinione pubblica internazionale per placarne la fame.
Voi ve l’immaginate la Libia chiedere al nostro Paese il permesso di bombardare quegli obiettivi in Italia in cui si presume si annidino i foreign fighters dell’Isis? E sareste tranquilli per l’incolumità vostra e dei vostri figli nel sapere che la morte può piovere dall’alto, in qualsiasi momento, come da anni accade a Gaza, con gli «omicidi mirati» di uomini di Hamas da parte delle forze israeliane? O come succede nei luoghi teatro delle guerre «umanitarie», come in Iraq dove – lo ha confessato lo stesso presidente americano, spiegando le dinamiche dell’uccisione dell’italiano Giovanni Lo Porto – non è sempre possibile sapere quante e quali persone si trovino nel punto scelto come bersaglio?
Eppure, no: di fronte alla tragedia senza fine delle migliaia di esseri umani che affogano nel «nostro» mare siamo capaci di immaginare soltanto soluzioni d’assalto, senza chiederci nemmeno per un istante come mai quelle persone escano in mare a sfidare la sorte su bagnarole che hanno più probabilità di affondare che di arrivare a destinazione.
Perché il problema non è soltanto il fatto che colpire gli scafisti avrà per inevitabile conseguenza il consueto corredo di «vittime collaterali», gli innocenti uccisi «per errore», a migliaia, nelle tante «missioni di pace» degli ultimi decenni. Il problema della guerra agli scafisti, o del tanto raccomandato blocco navale, è che, in assenza di cambiamenti legislativi significativi, quelle stesse persone che oggi accettano di rischiare tutto pur di sottrarsi a situazioni insostenibili saranno costrette a restare dove si trovano, morendo non più affogate in mare, ma di fame, di sete, di guerra. Delle guerre che noi occidentali alimentiamo da anni. Dei fondamentalismi di cui abbiamo bisogno per giustificare il nostro intervento. Del saccheggio delle ricchezze del sud del mondo da parte di un nord già ricco.
E davvero non riesco a immaginarmi povero, perseguitato, affamato, o inerme sotto le bombe senza pensare che certo anch’io farei qualcosa, qualunque cosa, per portare in salvo me stesso, o la mia famiglia. E non posso accettare il fatto che non avrei il diritto di farlo solo perché per farlo dovrei oltrepassare la frontiera di un altro Stato.
Commentatori di Facebook, che oggi vi scagliate contro noi «buonisti», che in fondo buonisti non siamo per niente (non è «buonismo» cercare di rimanere umani, e soprattutto razionali), adesso prendete in mano il telefono e chiamatelo, il vostro parente, o amico, che è dovuto partire per la Gran Bretagna, gli Stati Uniti o il Canada in cerca di un impiego, e gridatelo forte anche a lui che è un farabutto, che è andato a rubare il lavoro di britannici, statunitensi e canadesi, che queste cose non si fanno: ognuno a casa propria, che diamine! Chiamatelo subito, e esprimetegli lo schifo che vi fa.
Già, però lui, il vostro parente, è partito legalmente: mica è «clandestino». Col che intendete dire che lui non ruba, non spaccia, non svaligia gli appartamenti. Non fa quelle cose che attribuite agli «irregolari». Quelle cose che gli irregolari talvolta fanno, innanzitutto – sia detto senza voler giustificare nessuno – per l’impossibilità di trovare un’occupazione legale. Dovreste quindi ammettere che il problema non sono gli irregolari, ma l’«irregolarità».
E allora che aspettate a chiedere l’abrogazione della Bossi-Fini, la più grande fabbrica d’irregolarità d’Italia, la legge che di fatto impedisce a chiunque sia sbarcato clandestinamente di legalizzare la propria presenza, costringendolo – se vorrà mangiare – ad accettare lavori in nero, senza diritti, ai margini delll’onestà, o direttamente a trasformarsi in manovalanza per la criminalità organizzata?
Che cosa aspettate a chiedere la legalizzazione dei flussi migratori, fenomeni impossibili da bloccare, date le dinamiche di disperazione che li governano e la quantità delle persone coinvolte? Solo attraverso la possibilità, data al migrante, di giungere sano e salvo in Europa, e di impiegare le proprie capacità in un lavoro regolare sarà possibile procedere alla sua integrazione, trasformando quella che oggi è considerata una «minaccia» nell’opportunità che ancora non si vuol vedere.
Ci sarebbe ancora da rimuovere le cause che spingono tanta gente a partire («Aiutiamoli a casa loro»: non lo ripetete sempre?), ma per farlo occorre accettare l’dea di farci da parte, d’interrompere lo sfruttamento, la crazione di mostri da combattere per avere una scusa per combattere, ecc. Forse questo è un po’ più difficile.