Quello che segue è un racconto mio, liberamente ripubblicabile (secondo le modalità previste dalla licenza Creative Commons 3.0), con il quale “festeggio” i 50 anni del Presidente Usa, Barak Obama, a due giorni dal compromesso sul Debito che ha permesso, ancora per un po’, agli Stati Uniti di evitare il fallimento («default»), al prezzo – modico – di una sempre più cruenta macelleria sociale.
Bella mossa, caro nobel per la pace: ora la politica interna americana è sempre più in linea con quella estera!
Il discorso di Barak Obama nel Giardino delle Rose
Barak Obama avvicina il volto al microfono nel giardino delle Rose della Casa Bianca. Fa molto caldo. Forse è per questo che il Presidente suda.
«Miei cari concittadini», esordisce; poi, subito, una pausa. Un primo piano televisivo mostra, nel suo sguardo, qualcosa d’insolito. È la consapevolezza della gravità del momento, forse. Ma c’è anche un luccichio inatteso, che brilla come un guizzo di sfida che il Presidente lancia ai suoi avversari, tutti, in ogni parte del mondo.
«Il Congresso ha approvato il compromesso sul Debito, una misura che ci permette di evitare il fallimento dello Stato, evenienza che avrebbe devastato la nostra economia, che avrebbe portato la prima potenza del mondo – gli Stati Uniti – in una situazione molto pericolosa».
«Sono dunque contento», e qui la smorfia improvvisa delle labbra sembra smentire le parole del Presidente, «per il gran senso di responsabilità dimostrato da molti».
La fronte è imperlata di presidenziale sudore. I capelli, negli ultimi tempi, si sono fatti un po’ grigi.
«Certo, non tutti sono contenti per i tagli alla spesa pubblica. E veramente chi non ha lavoro avrebbe bisogno di uno Stato capace di farsi garante di servizi di alto livello, accessibili a tutti. Il compromesso approvato dal Congresso, invece, va esattamente nella direzione contraria».
«Chi è sprofondato nella miseria per colpa della crisi, inoltre, chi magari non ha più una casa, mi sputerebbe volentieri in faccia, pensando che ho appena confermato – e incrementato – le detrazioni fiscali a vantaggio dei più ricchi. Si tratta, oltretutto, di una misura che non ha niente a che fare con la ripresa dell’economia. Un regalo a chi ha già tutto, pagato da voi, cari concittadini. Ma pensate – se vi può essere di consolazione – che, oltre ai finanzieri che hanno bruciato i vostri conti in banca, a beneficiare di questa misura saranno anche le migliori star di Hollywood. È poco, lo so, ma è meglio che niente».
Il Presidente si gratta il mento, come a calcolare la portata di quanto ha appena affermato.
I sacrifici che ho appena imposto – e ci sono riuscito abbastanza facilmente, considerato che si tratta proprio di ciò che i miei avversari hanno sempre sognato – potrebbero essere accettabili se almeno avessero per fine quello di contribuire al bene collettivo. Non è così, ma non sapevo che altro fare. È da parecchio, ormai, che le politiche delle amministrazioni sono decise fuori dalle stanze dell’edificio che mi sta alle spalle e io, in fin dei conti, sono solo il Presidente degli Stati Uniti, non l’amministratore delegato di una società di rating!».
Lo sguardo di Obama si è fatto torvo, eppure – in qualche modo – fiero. Sa di dover sputare fuori la verità. Tenersi tutto dentro fa male: si rischia l’ulcera o addirittura un tumore.
«E poi, diciamolo: mi hanno dato il nobel per la pace prima che avessi il tempo di mostrare di che pasta ero fatto. Da allora a oggi, ho fatto capire che un nobel per la pace può bombardare alcuni popoli, infischiarsene delle richieste d’aiuto che vengono da altri – penso alla Palestina – e persino venire meno alla promessa di chiudere il lager di Guantanamo. In che cosa differisce la politica estera americana della presente amministrazione da quella del mio predecessore? Nel fatto che io uso meglio il linguaggio. Per il resto c’è continuità, perché le decisioni vere si prendono e in fin dei conti io son solo il Presidente degli Stati Uniti, mica l’amministratore delegato di qualche colosso delle armi!».
«Un giornalista di un Paese musulmano mi ha posto, un giorno, questa domanda: “Perché lei che ha tutto – soldi, potere, salute – si permette di comandare i raid aerei che polverizzano le nostre case? Perché si permette di spegnere la vita dei nostri figli? Perché non onora realmente (e daje!) un nobel per la pace che le è stato attibuito sulla fiducia? Lei si permette verso di noi ciò che non farebbe mai ai suoi concittadini. Ma se il fatto di non essere cittadini americani ci rende degni di qualunque arbitrio, allora la nostra nazionalità ci rende inferiori: e questo, anche s enon si fonda sul sangue, si chiama razzismo, il nuovo razzismo del passaporto occidentale e dei quattrini”».
«Razzismo!», il Presidente è livido. Si guarda attorno come a cercare di capire da dove viene il colpo che lo ha raggiunto allo stomaco.
«No, io non sono razzista, mi son detto. Non sono razzista, eppure le parole di quel giornalista sono sensate. Perché arrogarsi il diritto di fare agli altri ciò che non si farebbe mai ai propri cari, ai propri concittadini?».
«Il Compromesso sul Debito», e qui il Presidente si concede una pausa carica di significato, «è la dimostrazione che sono in buona fede. Il Compromesso sul Debito è la dimostrazione che non è vero che non farei ai miei concittadini ciò che da anni faccio a quelli di altri Paesi. Il Compromesso sul Debito è la mia dichiarazione di guerra ai cittadini americani, così come i missili prodotti dalle nostre industrie lo sono per i cittadini di altri Stati. Il Compromesso sul Debito, in altre parole, è l’anello di congiunzione tra politica estera e politica interna, un provvedimento che fa della mia amministrazione un capolavoro di coerenza».
«Dio benedica l’America!».
La telecamera allarga l’immagine al giardino. Le rose appaiono scosse per le parole del Presidente, ma è probabile che sia colpa del caldo. Parte l’Inno nazionale, seguito dalla pubblicità di una bibita.
“Parte l’Inno nazionale, seguito dalla pubblicità di una bibita”
Miglior finale non poteva esserci eheh
Grazie!