Il testo che segue è dell’amico Alessandro Pascale, membro di Rifondazione comunista e aderente a «La Cgil che vogliamo», area interna al primo sindacato italiano, fortemente critica – come me – con l’accordo firmato dal segretario generale, Susanna Camusso, con Confindustria e con le altre confederazioni sindacali. Lo pubblico dopo averlo richiesto espressamente, perché – come recita la Settimana enigmistica – «Forse non tutti sanno che» l’accordo dello scorso 28 giugno necessita dell’approvazione dei lavoratori iscritti alla Cgil per risultare valido.
A settembre, in tutta Italia, sarà possibile votare presso le sedi Cgil, per dire no – mi auguro – a un accordo che cancella il diritto di sciopero e permette deroghe infinite ai contratti di lavoro nazionali.
Tra 28 giugno e manovra finanziaria
di Alessandro Pascale
Siamo in una situazione paradossale: tre anni di Governo Berlusconi e di devastazione continua hanno risvegliato parte della società italiana dal torpore, facendola esplodere in movimenti che hanno visto un’ingente partecipazione popolare. Questo periodo ha visto emergere la FIOM di Landini che più di altri soggetti riesce a incarnare oggi la resistenza quotidiana a questi attacchi, rifiutando l’idea malsana del TINA (There is no alternative – non c’è alternativa), predicato 30 anni fa dalla reazionaria Thatcher e ormai accettato anche in “illustri” ambienti dei progressisti. Purtroppo dobbiamo constatare che la FIOM viene abbandonata a se stessa e che a livello politico la situazione è ancora più drammatica. Con le mobilitazioni di società civile, associazioni e partiti (pochi ma buoni) si è riusciti addirittura a portare a casa elezioni amministrative e referendum, dando segnali forti che chiedono la costruzione di una vera alternativa politica e culturale al berlusconismo.
Ma andiamo con ordine, cominciando dalla constatazione che in brevissimo tempo (neanche un mese) sono piovute dal cielo due mazzate terrificanti: da un lato l’accordo interconfederale del 28 giugno tra Confindustria, i sindacati “complici” CISL e UIL e la CGIL; dall’altro la terrificante manovra finanziaria (definita “classista” in un impeto di lucidità addirittura da Bersani, e quello del PD, non di Attac…). Manovra voluta da Tremonti per rispettare gli ordini di Bruxelles e appoggiata apertamente (purtroppo) da Napolitano e (parole a parte) nella sostanza dalla stessa opposizione parlamentare, che non ha trovato niente di meglio da fare che essere “responsabile” (come il buon Scilipoti?) e far passare la manovra nel giro di due giorni senza fare nessuna ostruzione di sorta.
Non c’è da stupirsi che tutto ciò sia avvenuto d’estate, nel torrido mese di luglio, sfruttando l’apatia dei vacanzieri intenti ad aprire gli ombrelloni piuttosto che a leggere giornali e costruire rivolte.
La cosa paradossale è la tragica mancanza di comprensione della situazione attuale da parte di un ampio gruppo di “progressisti” che si ostinano a cercare compromessi al ribasso (la Camusso) o mancano totalmente di autocritica rispetto alle scelte strategiche degli ultimi 20 anni (il PD).
L’UE ci chiede di portare progressivamente il nostro debito pubblico (più di 1900 miliardi di euro, al 120% del PIL) al 60% (poco meno di 1000 miliardi), in una condizione di crescita economica pressoché inconsistente. Ciò significa che questa manovra non è che la prima di una lunga serie, che siamo certi saranno anche più pesanti in futuro, perché condizionate dalle speculazioni finanziarie che non termineranno affatto finché non verranno poste regole rigide alla libertà dei mercati (e nessuno pare intenzionato a farlo).
In questa situazione occorre fare due cose, anzi tre:
1) Studiare: capire cioè cosa diamine si possa fare per uscire da questa situazione. Uscire dall’euro? Restarci ma attuare una politica keynesiana colpendo i ricchi? Agire a livello locale o europeo? E ce ne sono le condizioni? Come diceva Gramsci: «Studiate perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza» (a riguardo segnalo che il manifesto ha avviato un interessante dibattito che trovate sul suo sito).
2) Prepararsi a una stagione di conflitti. Perché ce ne saranno tanti, a partire dall’autunno caldo che si annuncia. In tal senso è ancor più grave il cedimento della Camusso, il cui accordo firmato prevede ulteriori limitazioni al diritto di sciopero oltre alla perdita di democrazia sui luoghi di lavoro e dei contratti nazionali.
3) Continuare la faticosa (ri)costruzione di un fronte sindacale e politico che sia degno di affiancare la rivolta sociale che i sacrifici faranno sorgere senz’altro. Laddove possibile, continuare ad appoggiare ogni gruppo che ritenga la conflittualità sociale un motivo propulsore di progresso della società. Per gli iscritti CGIL come il sottoscritto, tenere duro e lavorare per costruire dei «Fronti del NO all’accordo del 28 giugno», dato che a settembre si svolgerà il referendum tra gli iscritti. In tal senso appoggiare la FIOM di Landini e l’area congressuale «Cgil che vogliamo» di Rinaldini, che al momento è l’unica forza di opposizione a tali deleterie manovre.
A livello politico tentare di sollecitare sempre più la partecipazione popolare, anche nei partiti, perchè alla fine essi sono ancora indispensabili nella costruzione di un’alternativa al governo Berlusconi. Cercare di far “guarire” il PD dalla malattia del liberismo è un compito (credo) impossibile, per cui occorre lavorare per creare un’alternativa vera, autonoma sia da Berlusconi che da Marchionne, in grado di rappresentare una sponda valida e coerente ai movimenti di rivolta che appaiono ormai imminenti (la Grecia e gli indignados sono vicini…). Far capire a Vendola che il suo progetto di scalata al PD è fallito e auspicare quindi la costruzione di un ampio fronte antiliberista che raccolga SEL, FdS, l’IDV (se ci sta) e altri gruppi e partiti che rifiutano di svendere l’Italia. Per fare ciò occorre che tutti noi ci sporchiamo le mani, che usciamo dalle nostre remore individualistiche e accettiamo di mettere la nostra soggettività, le nostre energie, al servizio di collettivi in grado di riassumere al meglio i tre compiti sopra elencati. Da soli siamo deboli e marginali. «El pueblo unido», invece, non potrà che urlare alla vittoria. E se non ci riusciremo ci avremo almeno provato. E non dovremo vergognarci quando tra vent’anni guarderemo in faccia i nostri figli.
>>> La foto è mia; la vignetta che raffigura i famosi «investimenti» di Marchionne – proposto qui come simbolo dell’attuale imprenditoria italiana – è di Ronnie Bonomelli.