«Maestà, le cose non vanno tanto bene», disse il Gran-Ciambellano-e-Gentiluomo-del-Papa al Piccolo-Uomo-sul-Trono.
Si riferiva alla caduta di Milano, di Napoli, di Cagliari, di Arcore, di tutti quei centri urbani che – sconsiderati – avevano scelto la repubblica.
Aveva provato in tutti i modi, l’Unto del Signore, a camuffare la natura monarchica del proprio sistema di potere. Addirittura, aveva rinunciato a battezzare il figlio come lui, temendo che «Silvio II» suonasse indigesto all’orecchio democratico dei regnicoli, e s’era accontentato di Pier Silvio. Ma era stato invano.
E ora si aggirava solo per le stanze di quel Palazzo che aveva reso famoso con le feste danzanti, i bunga bunga regali e i trenini solo-prima-classe lungo i corridoi, com’era d’uso, un tempo, alla corte di Versailles.
Ma se il sovrano avvertiva precipitare su di sé l’ombra del 12 e 13 giugno – moderno, referendario, 14 luglio – non era però sconfitto e preparava il colpo di coda a forza di marketing elettorale, cosmesi e prmesse da marinaio (mi perdonino i marinai), ponendo il bell’Alfano alla guida del Partito e trincerandosi dietro le mura della Reggia.
Una parata militare a Roma, intanto, celebrava i fasti della «Repubblica democratica fondata sul lavoro»®, un’occasione ghiotta per il Presidente del Consiglio per fare comunella con qualcuno dei suoi pari.
È stata, secondo Adnkronos, «una giornata di strappi al protocollo». «Lungo il viale si apprestava a sfilare la banda dell’Arma dei carabinieri, quando Berlusconi ha lasciato il suo posto e si è avvicinato a re Juan Carlos sfiorandogli il braccio per dirgli qualcosa». Ma, attenzione: nelle cerimonie ufficiali, a quanto pare, i “reali” non possono essere toccati!
«La testa coronata spagnola […] ha sfoderato un sorriso di circostanza e il Cavaliere è tornato al suo posto. Poco dopo, Napolitano si è sporto verso Berlusconi dicendogli qualcosa e muovendo il braccio come a mimare il movimento di toccare. A quel punto il premier si è alzato nuovamente avvicinandosi ancora una volta al re Juan Carlos, dicendogli qualcosa, ma senza toccarlo». [ma proprio non hanno altro da fare?, ndr]
Festa «vetusta e inutile», infine, quella della Repubblica, secondo i fascisti della Comunità Militante Tiburtina, che hanno affisso uno striscione di due metri per tre, con la scritta «L’unica Repubblica che riconosciamo è quella sociale!» e una foto di Benito Mussolini e Adolf Hitler. E per fortuna sono gli altri a essere «vetusti»!
Lo striscione è stato rimosso dai carabinieri, com’era logico che fosse. Meno logico è che in questi giorni il Parlamento della Repubblica («democratica» ecc®; si veda sopra) stia dibattendo la proposta di legge del Pdl (il partito del premier) di tributare alle associazioni degli ex combattenti della Repubblica di Salò lo stesso riconoscimento delle associazioni partigiane, ricevendo, fra l’altro, anche contributi statali.
Il solito 2 giugno, insomma; una di quelle giornate che, a seguirne le varie celebrazioni, ti cascano – per non dire altro – le braccia. Oppure un momento di riflessione autentica su quanto poco «democratica» sia oggi questa Repubblica, nata dalla lotta partigiana contro il fascismo, e sulla necessità d’impegnarci quotidianamente per riaffermare l’importanza e il valore di concetti dimenticati o variamente calpestati, come la volontà popolare, la separazione dei poteri, la cittadinanza attiva. A cominciare dall’appuntamento referendario del 12 e 13 giugno e con il conforto dell’aver visto – proprio in questi giorni – che il regime sembra avere qualche problema di tenuta.