Che i 4 militari italiani morti in Afghanistan debbano essere pianti come eroi o meno è questione che non mi appassiona.
Se pensate che l’aver servito la «Patria» e la «Bandiera» in una situazione di altissimo rischio sia sinonimo di eroismo, allora chiamateli eroi.
Spesso anche i repubblichini erano convinti delle loro ragioni (e infatti l’ineffabile mondo della politica italiana ha iniziato a riabilitarli, con il prezioso contributo di certa, sedicente, sinistra); e naturalmente anche loro hanno messo a repentaglio vita e giovinezza (ripetere due volte l’ultima parola). Ciò non toglie che gli ideali per i quali combattevano fossero la sopraffazione e l’abominio, finalità che, si converrà, stonerebbero in qualsiasi pellicola d’azione hollywoodiana.
È possibile che un militare creda alla retorica della «missione umanitaria»? Immagino di sì, prima di partire. Una volta in guerra (perché è di ciò che si tratta) potrà cambiare o non cambiare idea. Di certo, le sue priorità saranno altre – portare a casa intatta la pelle, ad esempio – e non è detto che avrà modo di rendersi conto in prima persona delle decine di migliaia di vittime che la guerra occidentale all’Afghanistan ha fin qui prodotto.
Tutto questo per dire che mi dispiace della morte dei quattro alpini. Io non penso che fossero esseri umani peggiori di me. Credo che avessero firmato la missione sbagliata (moralmente sbagliata), però magari lo avevano fatto in buona fede.
A me non interessa sapere se sono eroi, né se gli eroi esistono. Vorrei invece sapere perché si fa tanto clamore intorno alla loro morte e non a quella delle vittime afghane uccise dalla coalizione occidentale della quale i “nostri” ragazzi fanno parte, molto più numerose.
Perché non si fa luce sull’uccisione di gente che per essere ammazzata non ha scelto di fare migliaia di chilometri, ma è rimasta nel proprio Paese e magari nella propria casa?
34 militari uccisi dall’inizio delle ostilità (9 anni fa!) non sono tanti, sono pochissimi. Certo, ogni vita è unica, ma non si può immaginare un conto vittime così basso per tanti anni di guerra senza tener conto della strategia degli eserciti occidentali; una strategia estremamente dannosa per la popolazione locale.
L’imperativo dei Paesi Nato è quello di evitare a tutti i costi un elevato numero di vittime fra i propri soldati (il che, detto così, potrebbe parere naturale). L’unico modo per evitare che le vittime interne ai contingenti dei Paesi che “contano veramente” siano numerose è tuttavia scaraventare sul nemico (vero o presunto, non si può correre il rischio di controllare) un volume di fuoco sufficiente a garantire la propria inavvicinabilità.
Per questo il bombardamento – che non è mai chirurgico, non foss’altro che perché non si è rinunciato ad armi come le cluster bombs (bombe a grappolo) – è preferito ad altri sistemi d’attacco ed è proprio attraverso i bombardamenti che viene ucciso il maggior numero di civili.
In un bell’articolo pubblicato sul manifesto del 12 ottobre, Tommaso Di Francesco condanna l’atteggiamento di chi, a sinistra, ha voluto legittimare la presenza italiana in Afghanistan («Il fatto è», argomenta, «che le guerre giustificate per “salvare i civili” e “la pace”, sono uno degli assi portanti del Partito democratico che così appare adeguato a governare, con assunzione della guerra in un’ottica di legittimità “costituente”).
«Sarebbe utile sapere dalla sinistra in guerra», suggerisce Di Francesco, «quali risultati abbia raggiunto finora di quelli dichiarati in partenza. I talebani dilagano nei due terzi del paese, rioccupano le aree da poco conquistate dalle truppe Usa e Nato, Karzai – che tratta separatamente con i talebani – è stato eletto con i brogli e le ultime elezioni sono state disertate, i soldati afghani sono impreparati e infiltrati, il conflitto si è esteso al Pakistan, i signori della guerra comandano, l’obiettivo attuale è comprare i talebani, i civili sono il target dei raid aerei e dei droni».
Il fine giustifica i mezzi «se conseguito», diceva Machiavelli. Al di là di ogni questione morale (che personalmente però ritengo fondamentale), quali sono per l’occidente le prospettive della guerra in Afghanistan?
«Il ministro La Russa chiede al parlamento che gli aerei Amx siano armati di bombe», continua Di Francesco, «ma la verità è che noi già siamo protagonisti della guerra aerea afghana con il ruolo degli alti ufficiali italiani che decidono i raid aerei nel comando unificato di Tampa [in Arizona, ndr]».
Aerei e bombe che non hanno consentito finora di tenere l’Afghanistan, ma che dovrebbero, secondo il ministro italiano della guerra, aiutarci a rispettare gli obiettivi, condizione necessaria per il ritiro delle truppe.
«La mia personale opinione, di cui abbiamo discusso nel governo e di cui discuteremo con il generale Petraeus», ha infatti dichiarato il ministro, in quello che a tutti gli effetti è il quartier generale degli alti funzionari di questo Stato in guerra, vale a dire lo studio televisivo di «Porta a Porta», «è che l’Italia possa iniziare il ritiro quando avrà raggiunto il suo obiettivo».
«Il vero termine è quando si consegue l’obiettivo. Dobbiamo mettere in campo tutte le energie possibili, con il minimo di rischio, per conseguire l’obiettivo di riconsegnare al legittimo governo afghano, entro il 2011, larghissima parte della zona ovest del paese».
Entro il 2011. Ipse dixit. E il ministro degli esteri “confermavit“. Come se nel giro di un anno fosse possibile realizzare ciò che non si è riusciti a fare dal 2001 a oggi.
La missione militare in Afghanistan non è soltanto sbagliata dal punto di vista etico («Il rispetto che dobbiamo ai militari italiani caduti è reale solo se esercitiamo il coraggio della verità. Sono morti per salvare un’alleanza militare che non ha più ragione di esistere», scrive Di Francesco in conclusione d’articolo, con riferimento alla Nato), ma è perfettamente inutile al fine della sconfitta dei taleban, come della pacificazione e democratizzazione del Paese. Di fronte a tutto ciò, l’unica scelta sensata – che però sembra sfuggire al ministro La Russa – è il ritiro immediato.
Ma La Russa ha una parola anche per quelli che la pensano come me. Il ministro della guerra ha infatti dichiarato, con riferimento ad Antonio Di Pietro, che «si può essere contrari alla missione internazionale» – bontà sua – ed «è anche legittimo dar voce a questa parte dell’Italia minoritaria che esiste ed è, mia valutazione personale, pregiudizialmente anti-americana» (il grassetto è mio, e ci voleva). «Ma non si può più», ha concluso, «usare la Costituzione come giustificazione».
Ricapitolando: noi che siamo contrari alla guerra siamo minoritari. Rispondo che bisognerebbe appurarlo. In più, se non vogliamo continuare una carneficina inutile e destinata a peggiorare è perché siamo antiamericani. Come tanti americani contro la guerra, ad esempio. Infine, non possiamo più farci scudo della Costituzione che consente la guerra soltanto in chiave difensiva (art. 11) perché, semplicemente, ce lo vieta La Russa.
Il 4 novembre sarà la festa delle forze armate. Sarebbe bello se il movimento contro la guerra riaccendesse la protesta (pacifica, è proprio il caso di specificarlo?) nelle strade e nelle piazze, a cominciare dalla ri-esposizione della bandiera della pace, e fiorissero incontri e manifestazioni. Io proverò a organizzare qualcosa nella mia città, magari una serata all’espace populaire. Penso che ognuno, se vuole, possa preparare qualcosa.
A tutte e a tutti ricordo la manifestazione indetta dall’Assemblea Permanente No F-35 il 6 novembre a Novara.