O, gingombèlls, gingombèlls, gingol oldeuèi!
Quante volte da bambini abbiamo storpiato la canzone di Natale per
eccellenza? Che poi, anche da grandi, non è che abbiamo imparato il
testo:
«Jingle bells, jingle bells, jingle all the way!», d’accordo. «Oh what fun it is to ride on a one-horse open sleight!», ma poi come continua?
Per chi conosce l’inglese, è il
solito invito al Natale festa-piena-di-gioia, l’allegria della slitta che
corre sulla neve scampanellando, come se ci fosse sempre un motivo per
correre festosamente sulla neve e per scampanellare energicamente. O è forse la gioia
della festa di Babbo Natale (personaggio commerciale inventato dalla
Coca Cola in sostituzione di altri personaggi della tradizione, meno
"spendibili" sul mercato degli acquisti selvaggi e dei giochi per
bambini), sorta di straniero che piomba furtivo di notte nelle case
degli italiani – padani compresi – e invece di essere accolto da un
antifurto o da un cane trova un panettone nel camino, ad ammorbidire la
caduta?
Per chi ci crede è una festa religiosa, il che tuttavia non esime dal
consumismo senza freni (anche i re magi, se vogliamo, non han badato a
spese, quando si son presentati davanti alla mangiatoia di Betlemme).
Per chi non ci crede dovrebbe essere un
giorno qualunque, ma guai a trovarsi soli il giorno di Natale, e
naturalmente non ci si può immunizzare dal rischio di non sentirsi a
posto senz’aver speso sufficientemente per i
regali.
«Dashing trough the snow / On a one-horse open sleight», continua la canzone.
Mi rivedo d’estate, intento a guidare la macchina verso
l’Auchan di Mesagne (Brindisi), coi finestrini tappati e l’aria
condizionata al massimo per vincere il gran caldo, e a canticchiare queste
parole. Un canto poco estivo, evocato, forse, dal fatto che stavo andando a
fare la spesa. Perché mi sembra che il Natale sia questo, in fondo:
un’occasione per far girare più veloce il motore dell’economia
capitalista, il circolo vizioso della crescita senza fine del Pil, minacciato
dalle crisi, è vero, e ciò nonostante ritenuto il miglior scenario possibile per il
futuro, malgrado le guerre, il riscaldamento globale, l’aumentare
dell’infelicità.
«Economia capitalista». Suona retrò, come se l’aver cancellato la
parola «conflitto» (la gomma la trovate in mano – soprattutto – al Pd) dovesse aver risolto magicamente
gli argomenti che ne erano alla base. «Capitalismo», «conflitto»,
«intervento dello Stato»: parole che fanno poco anni 2000, ma non per
questo parole inattuali.
E allora facciamo una panoramica veloce
su questo Natale 2009, così ostentatamente liberista. Osserviamo senza
infingimenti il Paese, con quell’ottimismo tanto caro al nostro premier ferito, che ammannisce dai teleschermi le nuove banalità sull’amore che vince, parlando ovviamente con lingua biforcuta.
Andiamo a trovare, insieme a Babbo Natale e alle sue renne, i ricercatori ambientali dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), da un mese sopra il tetto dell’istituto di via Casalotti in Roma, per evitare lo smantellamento della struttura, con conseguente esternalizzazione
della ricerca ambientale. Si tratta, per capirsi, dell’ente che
recepisce le direttive europee, redige progetti di bonifica (Priolo,
Porto Marghera), seguono il monitoraggio di attività industriali,
forniscono dati sulla pesca sostenibile e sulla maricoltura. Un
organismo di evidente importanza collettiva.
Andiamo a Pomigliano d’Arco, dove i precari della Fiat manifestano incatenati alle porte del comune, per non fare le spese della ristrutturazione prevista da Marchionne, una parolina innocua che taglierà posti di lavoro, come accadrà a Pratola Serra e anche a Termini Imerese (2200 operai), dove gli stabilimenti saranno chiusi tra due anni.
Andiamo a Torino, dove il gruppo tedesco Franz Kessler
ha deciso di chiudere la produzione per portarla in Germania, con buona
pace dei 65 dipendenti italiani. Al capoluogo piemontese ha invece
preferito la Francia Skf (viti), che licenzia 50 operai, mentre anche la finlandese Motorola a Torino ha licenziato centinaia di ricercatori.
Continueremmo il nostro viaggio, ma la
neve rende drammatica la situazione del "servizio" ferroviario, così
non ci spostiamo tanto volentieri. Ce ne restiamo in casa a
festeggiare, allora, questo Natale che non si sa che cosa sia, pensando
a chi comanda e su tutto fa retorica, presentando se stesso e le
proprie scelte di morte come atti responsabili. Nell’Italia dell’egoismo, delle nuove leggi razziali, dell’ignoranza e disinformazione, del precariato sfruttato
e continuamente sotto attacco, divertiamoci a immaginare, tra una fetta
di panettone e un calice di spumante, che cosa accadrebbe se il
pretesto di tutta questa festa, un bambino palestinese di 2 mila anni fa, scegliesse oggi il nostro ex Belpaese per nascere.
Ma avevo promesso, al premier convalescente, un pizzico del suo sano ottimismo: a dare un pochino di speranza è l’intesa strappata dagli operai della Yamaha di Lesmo (Monza) alla proprietà giapponese. 66 licenziamenti previsti dall’azienda saranno trasformati in cassa integrazione.
A questa soluzione hanno condotto 6 notti sotto zero sul tetto
dell’impianto, a dimostrazione (ed è qui che vedo un motivo per
sperare) che dove non si ha paura del «conflitto» i risultati ancora si vedono.
Fosse mai una lezione alla portata della nostra inconsistente sinistra?
PS: per i consigli circa i regali di Natale è decisamente tardi, ma se quancuno volesse fare una piccola donazione al collettivo A/I (Autistici/Inventati) che gestisce Noblogs, la piattaforma sulla quale questo blog, come tanti altri, è pubblicato, farebbe cosa davvero meritoria in difesa della libertà d’espressione in Italia.
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