Dal 2 al 13 settembre a Vicenza si svolgerà il
Festival No Dal Molin (dai un’occhiata al programma e vedi se riesci a fare un
salto), l’ennesima occasione d’impegno, di riflessione e di lotta per una
comunità – quella vicentina contro la base di guerra americana – che sta
dimostrando di sapere tener testa a decisioni prese sopra la testa dei
cittadini, a Palazzo Chigi o alla Casa Bianca, tanto dai governi di destra quanto
da quelli di (sedicente) sinistra.
Il Festival sarà un’occasione di solidarietà per una città ferita (i
lavori di costruzione della base sono, tristemente, iniziati), ma anche di
riflessione e allegria, tra concerti, conferenze, dibattiti e quant’altro. Obiettivo, gridare forte che
i giochi non sono ancora fatti e che il compito è lo stesso di sempre: «resistere
un minuto di più». Un compito che sarebbe più facile se le frastagliatissime
sinistre e, più in generale, il movimento contro la guerra non avessero deciso
di tacere. L’invito è quindi a tornare a far sentire la propria voce (di pace),
a ri-esporre le bandiere arcobaleno, a pretendere che i media tornino a parlare
di Vicenza e di quella base che un’ideologia di guerra sta costruendo al Dal
Molin, un invito del quale questo blog vuole nel suo piccolo farsi megafono.
A partire da ieri, mercoledì 19
agosto, padre Albino Bizzotto, fondatore dei Beati Costruttori di Pace ha
iniziato uno sciopero della fame perché, spiega in un intervista al manifesto,
«mi sono reso conto che di Vicenza e della base americana al Dal Molin in
questo periodo di ferie non parla più nessuno, a parte i vicentini». Ma «questa
della base americana non è una questione che riguarda solo Vicenza, riguarda
tutta l’Italia», se non si vuole continuare «ad avere un rapporto tra popoli
[…] tradotto in rapporti di guerra». E ancora: «sta passando una assuefazione
al degrado, al peggio che fa paura» (e pensare che qualche spiritoso ha proposto Berlusconi per il nobel per la pace).
Del resto, è sufficiente osservare gli
effetti di questa politica di guerra, cui l’occidente non sembra disposto in
nessun modo a rinunciare, per capire quale sia la posta in palio a Vicenza. Da un lato c’è il diritto
di una comunità a decidere del proprio futuro e modellare a piacimento
la propria città; dall’altro, la considerazione che da Vicenza
partiranno quegli aerei che
colpiranno i prossimi obiettivi americani, tanto in Medio Oriente quanto in Africa; e quale
sia la vera natura dei target “militari” lo dicono i dati bruti: circa duemila
vittime civili soltanto nel corso del 2008, una cifra enorme, che non può essere liquidata tirando in ballo i soliti «effetti collaterali».
Il fallimento del collaudato modello di politica estera basato sull’uso della forza è sotto gli occhi di tutti. Anche i recenti attentati
in Afghanistan e in Iraq, col loro spaventoso carico di morte, lungi
dall’essere una dimostrazione del fatto che non si può "mollare"
abbandonando in tal modo i civili a se stessi, costituiscono l’ennesima
prova che l’intervento militare non è in grado di portare stabilità e
pace; né del resto è credibile la natura pacifica di missioni che
permettono l’occupazione di un Paese e lo sfruttamento delle sue risorse. Intendiamoci:
né il regime di Saddam Hussein, né quello dei talebani meritavano di
sopravvivere; ma i vari fondamentalismi hanno buon gioco, oggi,
a rivendicare per i propri appartenenti lo status di guerriglieri, o magari di resistenti,
anche quando colpiscono nel mucchio, facendo strage di civili. Non
fanno forse la stessa cosa, in Iraq e in Afghanistan, le «democrazie»
occidentali? Qualcuno ha detto che la democrazia non si esporta con le
armi; si potrebbe aggiungere che bisogna stare particolarmente attenti
all’esempio che si dà, e che ogni strage di civili per mano
della coalizione occidentale è un ennesimo invito all’avversario a
continuare per la propria strada.
Già si è detto del parere del generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’aeronautica militare, circa l’impossibilità di evitare vittime civili se i nostri Tornado utilizzaranno le armi di bordo,
in un primo momento escluse dalla missione in Afghanistan, ma
recentemente autorizzate. A stretto giro di posta, lo stato maggiore
della difesa fa sapere che i «cannoncini in dotazione sui caccia
Tornado» aiutano a proteggere le forze della coalizione in Afghanistan
e sono sicuri per quanto riguarda «eventuali danni
collaterali». Staremo, naturalmente, a vedere, ma quanto fatto finora
per proteggere i civili durante il bombardamento degli obiettivi sensibili
non dispone certo all’ottimismo.
Dalla base di Vicenza eravamo partiti e alle basi Usa torniamo, rilevando l’inclinazione della nuova amministrazione per la politica militare di George W. Bush. In base alla "attualizzazione"
di un accordo militare con la Colombia, infatti, gli Stati uniti
d’America sarebbero in procinto di installare altre 7 basi (il Congresso ha
già approvato un finanziamento di 46 milioni di dollari), anche per
compensare la perdita della grande base di Manta, in Ecuador, il cui
accordo di utilizzo scade a novembre e non è stato rinnovato dal
presidente Correa; l’installazione delle nuove strutture militari
avrebbe come effetto quello di circondare il Venezuela
di Chávez e di riaffermare la presenza statunitense in America latina,
fino a qualche anno fa considerata da Washington il proprio «cortile di
casa».
È questo il tipo di politica contro cui si pone chi lotta per un modello non-violento delle relazioni umane, chi si propone d’impedire la realizzazione di un’opera di guerra come quella che si profila a Vicenza. Concludo linkando un testo scritto dal movimento No Dal Molin per contestare l’esautorazione della città, della sua popolazione e delle sue istituzioni, in obbedienza alla logica militare della distruzione di massa.
Il regime dei colonnelli
Da www.nodalmolin.it
A Vicenza non governano i cittadini; e si sapeva da un
pezzo. Non governa nemmeno il sindaco; e l’avevamo notato da qualche mese. A
comandare sono i colonnelli, statunitensi e italiani, sostenuti dal buon
commissario Costa che la Lega Nord chiede di confermare nel ruolo di
commissario straordinario, giusto per continuare a pagargli la parcella di
“estirpatore del dissenso locale”.
A comunicare al sindaco che la nuova installazione militare
statunitense al Dal Molin sarebbe “opera di difesa nazionale” – e, di
conseguenza, territorio sottratto, manu militari, alla giurisdizione
dell’amministrazione comunale – non è stato il parlamento che, del resto, sulla
vicenda Dal Molin non si è mai espresso; nemmeno il governo il quale, fino a
prova contraria, dovrebbe discutere e deliberare su un tema così delicato – la
cessione di una fetta di territorio nazionale a un esercito straniero – e
comunicare ai cittadini la propria decisione.
A mettere nero su bianco l’ordine – fuori il naso dal Dal
Molin, ovvero nessuna ispezione sarà concessa – è stato il colonnello Maggian,
comandante italiano della Ederle; lo stesso, per intenderci, che di fronte agli
ingressi illegali dei militari statunitensi in un parco cittadino – dove
scavalcavano la rete in orario di chiusura facendo scattare l’allarme – non ha
trovato di meglio che denunciare l’assenza di cartelli di divieto in lingua
inglese. Sarà proprio perché non parlano inglese che tanti civili afgani sono
stati ammazzati in questi mesi? Del resto i soldati non potevano capire che
dicevano “non sparate…”.
(Leggi tutto)
Leggi anche il testo nel quale padre Albino Bizzotto spiega le ragioni del proprio digiuno.
Sulle basi americane, leggi anche l’articolo La sconvolgente storia di Diego Garcia.