Esame di romanesco per i parlamentari!

 Roma, Montecitorio
 Pronta la legge
sul dialetto a scuola
, assicura Calderoli, andando incontro a una sensibilità
diffusa (almeno dalle parti delle feste della Lega, tra mangiate di polenta,
fiumi di birra e coretti razzisti sui napoletani condotti dal “maestro” Matteo
Salvini).
 
 Studio dei dialetti obbligatorio
alle elementari, alle medie e alle superiori, una proposta del tutto inutile,
ora che Renzo Bossi è stato finalmente promosso: bisognava pensarci prima.
 
 Il problema, naturalmente, non è
lo studio del dialetto, che è – di per sé – cosa degnissima, ma qualcos’altro:
 
 1) forse di cose da studiare ce ne
sono già tante; già ora i programmi non si finiscono (lo dico da insegnante) e
può darsi che nel mondo di oggi imparare una lingua europea o magari
approfondire qualche argomento delle discipline già esistenti sarebbe
preferibile;
 
 2) il dialetto è, per eccellenza,
la lingua che si parla in casa, o in strada con gli amici, non sugli odiati (lo
dico da insegnante!) banchi di scuola: imporre lo studio del dialetto è la
maniera migliore per farlo detestare;
 
 3) il dialetto è la parlata di una
comunità. Scopo della scuola sarebbe ampliare, non chiudere gli orizzonti di detta comunità rivolgendone lo sguardo su se stessa. Calderoli ha detto che si
aspetta un boom di richieste dalle «vallate» perché pensa che i valligiani
siano tutti ottusi;
 
 4) il dialetto non è il linguaggio più adatto per
imparare quelle altre cose che, colpevolmente, la scuola italiana tende a
lasciare “fuori”, ad esempio l’educazione alla sessualità;
 
 5) a impensierire la Lega si erge,
come un baluardo, il Ministro della Pubblica Istruzione, signora Mariastella
Gelmini! (vabbè, l’ultima l’ho detta per scherzo)
 
 CONTROPROPOSTA!
 
 Se il territorio è così importante
e se l’unico modo di valorizzarne la cultura è promuoverne il dialetto con la
forza
(immagino già in castigo quegli studenti che si ostinano a parlare in
italiano, magari all’intervallo), lo stesso dovrà avvenire nei Palazzi.
 
 E
siccome
la Camera, il Senato, la sede del governo e quella della Presidenza
della Repubblica (avete notato che l’unica minuscola l’ho messa al governo?) si
trovano a Roma, in attesa di spostarli a Cernusco sul Naviglio (prossima
proposta di Zaia), propongo che deputati, ministri e senatori (si potrebbe fare
eccezione, al limite, per il Capo dello Stato) imparino a parlare in romanesco
e dimostrino, dato che si tratta di un dialetto “più facile” di altri, di
conoscere la cultura romana, e l’opera omnia di Belli, Trilussa e Pascarella.
Magari, al test di dialetto della Camera, Umberto Bossi potrebbe ripercorrere
le orme del figlio Renzo, scontrandosi con testi come quello, decisamente
adeguato alla circostanza, riportato qui sotto: «L’incontro de li sovrani» di
Trilussa.
 
 L’incontro de li sovrani
 
 Bandiere e banderole,
 penne e pennacchi ar vento,
 un luccichìo d’argento
 de bajonette ar sole,
 e in mezzo a le fanfare
 spara er cannone e pare
 che t’arimbombi dentro.

 Ched’è? chi se festeggia?
 È un Re che, in mezzo ar mare,
 su la fregata reggia
 riceve un antro Re.
 
 Ecco che se l’abbraccica,
 ecco che lo sbaciucchia;
 zitto, ché adesso parleno…
 -Stai bene? – Grazzie. E te?
 e la Reggina? – Allatta.
 – E er Principino? – Succhia.
 – E er popolo? – Se gratta.
 – E er resto? – Va da sé…
 – Benissimo! – Benone!
 La Patria sta stranquilla;
 annamo a colazzione… –
 
 E er popolo lontano,
 rimasto su la riva,
 magna le nocchie e strilla:
 – Evviva, evviva, evviva… –
 E guarda la fregata
 sur mare che sfavilla.
 
          
[dicembre 1908]
 
 Un unico aiuto: le «nocchie» sono le nocciole, non le nocche della mano. Per il resto,
il candidato Bossi faccia da sé o magari chieda a Calderoli, dimostrando così che anche gli
alunni del nord copiano.

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