«Sulle tradizioni locali si può ragionare»
Parola di Mariastella Gelmini. Ma non pensate all’esame di dialetto invocato e poi smentito in questi giorni dalla Lega (secondo me, la Lega ha fatto dietrofront
per andare incontro ai propri elettori, perché si è resa conto che un
esame in più, per molti dei suoi, sarebbe uno scoglio insormontabile).
Pensate piuttosto alle prove generali del nuovo federalismo scolastico, roba che rende allegri e fiduciosi (ottimisti, per dirla col premier), soprattutto pensando a chi è chiamato a idearlo.
Il nuovo sistema scolastico, a quanto pare, sarà fondato non sulle graduatorie, ma su Albi regionali, cui gli aspiranti insegnanti potranno iscriversi dopo «test
omogenei di valutazione con alcune domande chiave per verificare la
conoscenza e la consapevolezza dei valori, degli scopi, degli obiettivi
e dei requisiti generali dell’insegnamento», come recita un emendamento
alla riforma scolastica presentato dalla Lega. L’iscrizione all’Albo regionale sarà subordinata, si apprende poi, alla valutazione del «sistema valoriale» del candidato,
il quale – si sa – rischia d’influenzare lo «sviluppo fisico,
intellettuale, linguistico, culturale ed emotivo» degli alunni. Occorre
infatti evitare, come si evince dalle parole di alcuni esponenti della
Lega, citate nel manifesto del 30 luglio, che «il parlare napoletano di un professore possa influire nella formazione di studenti di altre regioni».
Immaginatevi che guaio se un ragazzino veneto incominciasse a dire «Ma quando mai?» invece di «Assolutamente no»! Bisogna impedirlo, costi quel che costi.
Ma, al di là dei deliri razzisti della
Lega (che non vanno tuttavia sottovalutati), il problema del nuovo
sistema scolastico basato sugli Albi regionali è proprio la soppressione delle graduatorie. Il governo, infatti, vorrebbe trasformare l’attuale metodo di reclutamento, che prevede un punteggio per ogni insegnante, il quale aumenta a seconda degli anni d’insegnamento realmente effettuati, in una sorta di assunzione arbitraria, legata alla discrezione dei presidi. Come avviene già oggi nelle aziende private, l’aspirante insegnante dovrà sostenere un colloquio con il dirigente scolastico (o dovrei dire il dirigente del personale?), che deciderà in piena autonomia chi assumere e chi no.
Il metodo è già in vigore in altre
nazioni (ad esempio, se non sbaglio, in Gran Bretagna), ma vi lascio
immaginare a quali esiti paurosi potremmo andare incontro in termini di
raccomandazioni, nepotismo, corruzione/concussione (già oggi in certe zone d’Italia gli insegnanti accettano di lavorare gratis
presso istituti privati, pur di accumulare punteggio, figuriamoci se
non sarebbero disposti a fare un "regalo" al dirigente scolastico!).
Il risultato sarebbe quello tenere i professionisti della scuola
(per iscriversi all’Albo, se non sbaglio, si dovebbe essere abilitati
all’insegnamento) nella precarietà più assoluta, con il rinnovo del
contratto legato alla decisione di un "capo" col quale si può anche
non andare d’accordo, e non necessariamente per colpa propria; il
preside verrebbe poi ad avere in mano una micidiale arma di ricatto: solo gli insegnanti a tempo indeterminato, infatti, potrebbero
sottrarsi alla richiesta di eseguire ore o incarichi supplementari (di norma più
o meno incentivati, è vero, ma generalmente "più meno che più"), sicuri di
conservare il posto di lavoro per l’anno successivo.
Non sono cose nuove, si chiama precarietà senza diritti ed è quanto già avviene in altri ambiti, ad esempio nei cantieri edili,
dove chi non è sicuro della propria posizione contrattuale (o
addirittura non è in regola col permesso di soggiorno) non può
permettersi di reclamare le i dispositivi di protezione previsti dalla legge e, più in
generale, il rispetto della propria «sicurezza» (a proposito: ma sulla
«sicurezza» non avevano appena approvato una legge?).
Naturalmente, il colloquio finalizzato all’assunzione a scuola potrebbe favorire quell’attenzione se non al dialetto, almeno alle tradizioni del territorio che la Lega sembra reclamare. Già oggi nella mia regione (la Valle d’Aosta), in virtù dello Statuto autonomo, esiste una prova di francese e di conoscenza della "civilisation valdôtaine"
(storia e cultura valdostana) per chi ambisca a un qualunque lavoro
pubblico. Magari uno è un ottimo insegnante di matematica, oppure un
medico brillante, ma deve dimostrare di sapersi esprimere in francese,
non si sa mai…
Tanto a Montecitorio quanto a Palazzo Madama, intanto, cosa che la dice lunga sul clima generale, sono state presentate due proposte di legge leghiste, che prevedono l’insegnamento obbligatorio di tutte le lingue riconosciute dalla Carta europea delle lingue regionali
ed effettivamente parlate nel territorio nazionale (albanese, catalano,
croato, francese, franco-provenzale, friulano, greco, ladino, occitano,
sloveno, tedesco), ma anche del veneto e del piemontese (non
riconosciuti dalla Carta), perché «parlate da milioni di persone in
diversi Stati», come spiega Federico Bricolo, capogruppo leghista a
Palazzo Madama.
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