Un ponte del primo maggio a Mentone all’insegna del mare e dello svago, per ripigliarci un po’… Mentre scendiamo dal Col di Tenda, intorno a noi si fa buio e il cd dei Noir Désir ci accompagna verso Ventimiglia. La bonus track è lunghissima, più di venti minuti; ci guida fino in Francia. Parla dell’Europa, del vecchio continente “putain autoritaire, aristocrate et libertaire”, erede delle Colonie, desideroso d’amnistia e d’amnesia per il suo passato (“de toutes façons il faut bien avancer” ). L’Europa dei tecnocrati, l’Europa di Bruxelles, di Schengen, di Strasburgo, di Maastricht, l’Europa dei Pil, dell’Ocse e del Gatt, l’Europa del mercato, dell’euro… L’Europa, l’Europa che scivola sotto le gomme della nostra auto, chilometro dopo chilometro, mentre la bonus track sembra infinita.
“Nous travaillons actuellement pour l’Europe…”
Mentone è un sogno colorato di case arroccate sul fianco del monte, tra l’azzurro del mare e il verde della macchia, più in alto. Troviamo bel tempo. Sono sfaccendato, scioperato, finalmente. Leggo libri gialli in francese, uno dietro l’altro. L’acqua è ancora fredda, nel mare, ma ci buttiamo lo stesso: il primo giorno è tremendo, sembra di essere alle prese con un torrente di montagna. Dopo è più semplice. Proviamo ad abbronzarci rapidamente senza scottarci: un’impresa.
Mentone è bella, è “il primo sorriso di Francia”, come recitava un cartello che ho letto qualche anno fa. Si viene dall’Italia attraverso il ponte Saint-Ludovic, situato proprio sul confine, tra la ex dogana italiana e la ex dogana francese.
Sul ponte, una targa ricorda che lì si è fermata, secondo le autorità pubbliche francesi, la nube radioattiva dell’incidente nucleare di Chernobyl, il 29 aprile 1986. Alla dogana. Una questione di documenti non in regola, suppongo.
È pomeriggio. Oltrepassiamo il ponte, in direzione Italia. Vogliamo andare al mare ai Balzi Rossi. Incontriamo per caso alcuni miei amici di Torino, che non vedo da molto tempo. Ci mettiamo d’accordo per andare al mare assieme, il giorno dopo. Intanto, Silvia e io proseguiamo per la spiaggia di roccia.
Il mare è limpido. Non avevo mai visto una stella marina dal vivo.
L’indomani raggiungiamo gli amici alle Calandre, vicino a Ventimiglia: si chiacchiera, si fa il bagno, si acchiappa un po’ di sole. Restiamo tutto il giorno sulla spiaggia, riuscendo nell’improba impresa di non ustionarci. Incredibilmente, prima di andar via, ci lanciamo nella costruzione di un enorme castello di sabbia, che presto diventa una città fortificata, con tanto di guglie e decorazioni, più il porto e il borgo e naturalmente la tangenziale e l’autogril. Poi rimaniamo lì, in silenzio, osserviamo la marea montare, portarsi via a poco a poco torri e bastioni, poi interi quartieri: i crolli e le alluvioni si succedono inesorabili. Dopo un po’ mezza città è sott’acqua. Rispetto a quando costruivo castelli di sabbia da bambino c’è una differenza: ora mi soffermo – ci soffermiamo – con un po’ di malinconia sulla decadenza dell’antica città di Camelia, un tempo florida. La fine dei commerci ha rovinato superbe famiglie nobiliari e l’antico splendore ha lasciato il posto a incuria e fatiscenza… Il borgo vecchio è stato abbandonato, così il rione basso, un crollo ha diviso il muraglione occidentale del porto in due tronconi, il più estremo dei quali sembra ormai un isolotto. Zone un tempo unite da mura di pietra o da solida terra sono ora dominio delle acque. Bisogna munirsi di una barca per raggiungere vecchi palazzi signorili o la cerchia delle mura lato mare. Il piccolo scafo oscilla sull’onda, mentre il traghettatore voga al tramonto, il volto intento a fissare lontano, verso le rovine del torrione principale…
Primo maggio, festa dei lavoratori e ultimo giorno della breve vacanza. La mattina torniamo alle Calandre: due ragazzine occupano la sabbia più vicina a noi. Telefonano alle amiche e mandano messaggi. Una delle due sembra particolarmente rissosa: la sera precedente si è fatta il ragazzo di un’altra, o il tipo che piace a un’altra, e ora continua a provocare la rivale per telefono o tramite sms. Prima scrive un messaggio a una conoscente comune, chiedendole di riferire “a quella troia della tua amica” le proprie avventure della sera prima. Poi telefona a qualcuno (la rivale o l’amica), con cui inizia a litigare. A quanto pare, è auspicabile che tutte le interessate vengano in spiaggia, così da chiarirsi, magari con una bella scazzottata. Del resto, le due si devono essere già scontrate, perché la nostra vicina si vanta di non essere lei quella coi lividi. Malauguratamente, le avversarie non possono raggiungerci, così il “chiarimento” è rimandato all’indomani. Mentre questo avviene, mi soffermo a osservare la ragazzina sporgendomi di un poco sopra la pagina del manifesto che Silvia sta leggendo. Si parla della solidarietà del presidente della repubblica a Bagnasco, presidente della Cei, che ha ricevuto un bossolo per posta. Io non riesco più a capire che cosa tra le due cose conti veramente, quale sia la vita vera, né – in tutto questo – che cosa sia serio sul serio.
Primo maggio. Pomeriggio. Torniamo verso casa. La macchina si arrampica verso il Col di Tenda. Abbiamo pensato che, evitando l’autostrada, avremmo anche schivato buona parte del traffico del rientro. Non ho notizie dell’autostrada, ma la strada statale n°. 20 è una fila non interrotta di veicoli. Risaliamo la valle del Roya a velocità così ridotta che spesso procediamo a passo d’uomo. Il panorama, comunque, è incantevole: il verde è dappertutto, intenso, negli alberi e nei prati.
Capisco che la natura soffre, aggredita com’è dai gas di scarico di tutte le automobili. E penso a me stesso, al fatto che ogni giorno faccio quasi due chilometri a piedi per andare al lavoro per non inquinare. Poi bastano due o tre giorni di ferie per indurmi a fare centinaia di chilometri in macchina. Osservo l’infame colonna del traffico e mi dico che è assurdo, che non può verificarsi un esodo del genere ogni volta che c’è una vacanza. Ma gli italiani sono davvero così cretini? Ma non eravamo rimasti tutti senza soldi? Poi mi accorgo che in mezzo alla coda ci sono anch’io, inquinante e imbecille come gli altri, specie agli occhi degli abitanti della vallata.
Silvia mi scatta questa foto, nella quale appaio con l’epressione tipica del conducente imbottigliato (ma devo confessare che mi sono messo in posa).
Ci fermiamo in un paesino del comune di Tende, per una capatina al bagno e un caffè. Ci accolgono i manifesti elettorali di Ségo e Sarkò (come li chiamano i giornali), i candidati al ballottaggio per la presidenza della repubblica francese, che si svolgerà il prossimo 6 maggio. A proposito: chiunque stia leggendo queste righe, qualora le stia leggendo prima che i giochi siano fatti, se mai si ricordasse una preghiera, farebbe cosa buona a recitarla, per evitare che la Francia cada in mano a Sarkozy…
Ma la politica rimane fuori dalla nostra giornata, a meno di non considerare politici i mille risvolti dell’osservazione e della cronaca, le sagome umane disegnate sull’asfalto, in entrata e in uscita da Tende, dove gli abitanti conducono la loro battaglia contro un tipo diverso di alta velocità, quella delle automobili, che hanno investito più volte qualche abitante del centro. Osservando la strada congestionata mi chiedo se non si potrebbe introdurre un qualche limite nel numero dei passaggi consentiti.
Gli ultimi tornanti prima del colle sono belli del verde delle foglie che si confonde con il grigio biancastro delle nubi. Pioviggina e nella macchina c’è Kiss me kiss me kiss me dei Cure. L’atmosfera è strana, ma distesa. Tutto sommato, guidare nel traffico può anche non essere così stressante.
Giunti al tunnel, lo superiamo. È vecchio e sembra stretto e buio. Le pietre dei muri sono grosse e scure e sanno d’altri tempi. Dall’altra parte, la fila non finisce, fino in fondo alla discesa. Otto lunghissimi tornanti. Raggiunta Borgo San Dalmazzo, ci fermano i carabinieri per un controllo. Poi continuiamo, entrando nel paese. C’imbattiamo senza cercarlo nel monumento memoriale della deportazione di 329 ebrei, avvenuta a partire dal piazzale della stazione di Borgo San Dalmazzo il 21 novembre 1943. Altri sventurati seguirono la stessa sorte successivamente. Vicino alla stazione, sono conservati alcuni vagoni dell’epoca, davanti ai quali è stata predisposta un’installazione con i nomi dei sopravvissuti. Faccio qualche foto, ma il buio vanifica i miei sforzi. È impressionante pensare che quei carri merci abbiano trasportato uomini e donne schiacciati come bestie da macello.
Cala la notte e, mentre cerchiamo l’autostrada, sorge una luna stupenda, grande e gialla sul celeste del cielo. Mi fa pensare alla luna che vedevo da bambino, quando andavo a trovare i miei nonni a Mondovì. Sarà quella tipica di qua, diversa da quella delle mie parti: una questione di altezza, magari. Ma intanto mi sembra bella tonda. Sarebbe bello approfittarne per qualche passeggiata notturna sui monti…
“Nous travaillons actuellement pour l’Europe…”
La foto che mi ritrae stressato dal traffico al volante della mia auto è di Silvia Rinaldi.