Diaz: caro Tortosa, ero a Genova anch’io – di Lello Voce

Tra le tante cose scritte in questi giorni sulle parole del poliziotto Fabio Tortosa, che ha rivendicato con orgoglio la sua presenza «quella notte alla Diaz», ho trovato molto giuste queste del poeta Lello Voce, comparse sul «Fatto Quotidiano», che ripubblico con il consenso dell’autore.

Diaz: caro Tortosa, ero a Genova anch’io.
Di Lello Voce

Gentile Tortosa,

a Genova c’ero anch’io.

Ero in piazza Alimonda, quando un suo collega (o chi sa chi, in vece sua) sparò a Carlo Giuliani. Ero là mentre un altro suo collega, quello che guidava quel maledetto Defender lo finì, passando sul suo corpo, mentre ancora era in vita, pur di scappare dall’ira di quelli che fino a quel momento i suoi colleghi avevano picchiato, inseguito, avvelenato di gas illegali.

Sì, Giuliani, la “zecca comunista”, proprio quello che lei, su Facebook, si augura che «sotto terra faccia schifo anche ai vermi». Che stile che ha Tortosa: la classe non è acqua.

Ed ero su via Tolemaide quando lei e i suoi colleghi avete caricato le Tute Bianche con tutta la forza di un apparato di guerra, come fossero nemici da combattere e non manifestanti da contenere: autoblindo, pistole caricate con proiettili da esercitazione, estintori, manganelli Tonfa usati in modo assolutamente illegittimo.

Ero a Genova mentre i cosiddetti Black Bloc devastavano, e voi li guardavate devastare per poi sfogare la vostra rabbia cieca sugli inermi e sui deboli.

Ero là, mentre due figuri in divisa scalciavano rabbiosamente due suore laiche, mentre altri inseguivano un infermiere con tanto di pettorina aprendogli la testa a manganellate, ero là a guardare le ferite sui corpi dei manifestanti pacifici di piazza Manin, spazzati via a colpi di manganello e anfibi, fatti a pezzi, mentre mostravano le mani nude.

Ero là, il sabato successivo, quando avete, con tattica militare, spezzato in due l’immenso e pacifico corteo all’altezza di Piazzale Kennedy. E avete iniziato a lanciare lacrimogeni dagli elicotteri, a inseguire e massacrare pacifici manifestanti sin sulla spiaggia del Lungomare. Ero là mentre qualche suo collega metteva su falsi ferimenti e depistaggi patetici, per coprire l’orrore di ciò che era stato commesso.

E avrei dovuto essere alla Diaz, quella sera, se non fosse stata per l’idea di un caro amico, Franco Berardi, che invitò me e il mio collega, il video-artista Giacomo Verde, a andare a dormire con lui a Santa Margherita, dove aveva scovato una pensione economica.

Ero là per lavorare, gentile Tortosa, come lei: inviato dell’Ora di Palermo, allora diretta da un giornalista di razza, come non se ne vedono più: Antonio Cipriani.

Non c’erano soldi per pagare alberghi, L’Ora era un giornale povero, dunque restava la Diaz. Ero là, mentre la sera di venerdì cantavate allegri “Faccetta nera” nelle vostre caserme, mentre vi comunicavate la morte della “zecca” con punteggio calcistico: 1-0 per voi.

Ero là mentre picchiavate chiunque, per il solo gusto di farlo: giovani, vecchi, ragazzi, donne. Chiunque. Senza peraltro riuscire in realtà ad arrestare alcuna violenza e alcuna devastazione, anzi riuscendo solo a mandare a processo qualche capro espiatorio, gente che per aver distrutto un bancomat, o abbattuto un segnale stradale si è beccata decine di anni di galera comminati dai giudici della Repubblica, i medesimi che non hanno neanche permesso che si tenesse un processo per la morte di Giuliani, i medesimi che hanno assolto praticamente tutti quelli che portavano una divisa e i politici che erano alla loro testa, nei loro ruoli istituzionali.

Per essere in servizio di ordine pubblico, direi che avete fallito: siete stati complici e mandanti del disordine, piuttosto.

Ma se vuole vedere quello che ho visto, clicchi qua, si guardi i Limoni che io e Verde, insieme a tanti altri artisti, poeti, scrittori, abbiamo raccolto a Genova. Poi mi dica…

Vede la cosa che più mi indigna non è che lei rivendichi con tanta energia quanto lei ed altri (o altri) hanno compiuto nella Diaz, quello che un suo collega ebbe a definire «macelleria messicana», né il suo pavido dietrofront di queste ore, quando balbetta che intendeva altro, che non ha commesso reati, che non aveva diritto di rifiutarsi di compiere alcunché, perché forse gli ordini non erano «manifestamente criminosi», ma semplicemente illegittimi (in Italia è solo illegittimo ordinare a qualcuno di compiere quanto è accaduto alla Diaz? Ne è sicuro? La legge dovrebbe conoscerla, visto il lavoro che fa), quando dichiara di votare Pd (magari lo fa anche il suo ex-capo, quel De Gennaro che si ostina a far finta di niente, per tenersi stretta la ‘cadrega’).

No, quel che mi indigna di più è il suo parlare della Diaz come se si trattasse di un episodio isolato (versione evenemenziale della nota teoria della ‘mela marcia’), mentre invece è stato uno dei tanti capitoli di un vero e proprio ‘golpe temporaneo’, iniziato la mattina di venerdì e terminato solo quando gli ultimi poveri massacrati e torturati di Bolzaneto sono stati infine restituiti alle loro famiglie e alle loro vite, irrimediabilmente segnati da quella insensata, inutile, disgustosa violenza.

Ciò che mi indigna di più è il suo far finta di nulla. E se non fa finta di nulla, se davvero non ha occhi per vedere quello che è successo a Genova, allora è ancora peggio, visto che noi cittadini a lei affidiamo la tutela dei nostri diritti e della nostra libertà.

E per difendere la libertà, non si può ignorare.

Mi indigna che lei non capisca è che da Genova tra i cittadini e le Forze dell’Ordine si è aperto uno iato, che poi non si è mai più sanato. Chi ha ucciso Aldrovandi, o Cucchi, in qualche maniera, mi creda, sia pur metaforicamente, è nato a Genova.

Quello che mi indigna davvero è la sua rozza ‘ignoranza’, cioè la sua totale incapacità di comprendere di essere stato l’ingranaggio di una folle e violenta strategia di repressione che niente aveva a che fare con i compiti che lei si è assunto vestendo la divisa e giurando di difendere la Repubblica e la libertà e i diritti dei suoi concittadini.

Un ingranaggio messo in moto da altri, gli stessi che ora la scaricheranno con indifferenza, perché ora lei non gli è più utile.

Se lei non fosse così integralmente ed etimologicamente ‘ignorante’, forse sarebbe anche meno violento e meno fascista di quel che sembra essere.

E io sarei meno spaventato ogni volta che vedo una divisa.

Pubblicato in General | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su Diaz: caro Tortosa, ero a Genova anch’io – di Lello Voce

La rimozione nascosta della memoria (di Angelo d’Orsi)

arbusti.jpg

Ripubblico, con il consenso dell’autore (e con colpevole ritardo), un articolo dello storico Angelo d’Orsi, ordinario di storia del pensiero politico all’Università degli Studi di Torino, uscito sul manifesto dell’8 aprile 2015. La memoria di ciò che furono il regime nazista e i campi di sterminio è oggi oggetto di stravolgimenti silenziosi e appropriazioni esclusive, volte a sfrattare parte delle vittime dal loro diritto a essere ricordate, strane equiparazioni tra nazismo e comunismo – com’è appena successo in Ucraina – patenti e certificazioni della sofferenza per cui si decide quali «movimenti di liberazione nel mondo» possono festeggiare il 25 aprile e quali no.

Il tutto con la connivenza delle istituzioni, felici forse di poter riscrivere a modo loro la storia degli anni più bui d’Europa.

La rimozione nascosta della memoria
(di Angelo d’Orsi)

Ad Ausch­witz, uno dei monu­menti più note­voli tra quelli dedi­cati alle varie comu­nità degli inter­nati è il cosid­detto «Memo­riale Ita­liano». Un paio di anni or sono le auto­rità polac­che deci­sero di chiu­derlo al pub­blico, nel silen­zio del governo ita­liano, e dell’Aned, in teo­ria pro­prie­ta­ria dell’opera. Pochi mesi fa la sovrin­ten­denza del campo, ormai museo, ha deciso di pro­ce­dere alla rimo­zione del Memo­riale. La sua colpa? Quella di ricor­dare che nei lager non furono sol­tanto depor­tati e ster­mi­nati gli ebrei, ma gli slavi, i sinti, i rom, i comu­ni­sti insieme a social­de­mo­cra­tici e cat­to­lici, gli omo­ses­suali, i disa­bili. Quel Memo­riale opera egre­gia, alla cui idea­zione, su pro­getto dello stu­dio BBPR (Banfi Bel­gio­joso Perus­sutti Rogers, il pre­sti­gioso col­let­tivo mila­nese di cui faceva parte Ludo­vico Bel­gio­joso, già inter­nato a Buche­n­wald) col­la­bo­ra­rono Primo Levi, Nelo Risi, Pupino Samonà, Luigi Nono…, ha dei «torti» aggiun­tivi, come l’accogliere fra le sue tante deco­ra­zioni e sim­bo­lo­gie anche una falce e mar­tello, e una imma­gine di Anto­nio Gram­sci, icona di tutte le vit­time del fasci­smo.

Ora, ai gover­nanti polac­chi, desi­de­rosi di rimuo­vere il pas­sato, distur­bano quei richiami, agli ebrei il fatto che il monu­mento metta in crisi «l’esclusiva» ebraica rela­tiva ad Auschwitz. Ed è grave che una città ita­liana, Firenze, si sia detta pronta ad acco­glierlo. Con­tro que­sta scel­le­rata ini­zia­tiva si sta ten­tando da tempo una mobi­li­ta­zione cul­tu­rale, che si spera possa avere un riscon­tro poli­tico forte e oggi su que­sto si svol­gerà nel Senato ita­liano una ini­zia­tiva di denun­cia pro­mossa da Ghe­rush 92-Committee for Human Right e dall’Accademia di Belle Arti di Brera. Spo­stare quel monu­mento dalla sua sede natu­rale, equi­vale a tra­sfor­marlo in mero oggetto deco­ra­tivo, men­tre esso deve stare dove è nato, per il sito per il quale fu pen­sato, a ricor­dare, pro­prio là, die­tro i can­celli del campo di stermi­nio, cosa fu il nazi­smo e il suo lucido pro­getto di annien­ta­mento, che, appunto, non con­cer­neva solo gli ebrei, col­lo­cati in fondo alla gerar­chia umana, ma anche tutti gli altri popoli, giu­di­cati essere «razze infe­riori» come gli slavi, o i nemici del Reich, comu­ni­sti in testa, o ancora gli «scarti» di uma­nità, secondo le oscene teo­rie degli «scien­ziati» di Hitler.

Insomma, la rimo­zione del Memo­riale, è una rimo­zione della memo­ria e un’offesa alla storia. Ebbene, l’atteggiamento dell’Aned e delle Comu­nità israe­li­ti­che ita­liane, che o hanno taciuto, o hanno appro­vato la rimo­zione del Memo­riale (in attesa della sua sosti­tu­zione con un bel manu­fatto poli­ti­ca­mente adat­tato ai tempi nuovi), appare grave.

E in qual­che modo richiama le pole­mi­che di que­sti giorni rela­tive alla mani­fe­sta­zione romana del 25 aprile.

Pre­messo che la cosa «si svol­gerà di sabato», e dun­que, come ha pre­te­stuo­sa­mente pre­ci­sato il pre­si­dente della Comu­nità israe­li­tica romana, gli ebrei non avreb­bero comun­que par­te­ci­pato, la denun­cia che «non si vogliono gli ebrei», è un rove­scia­mento della verità: non si vogliono i pale­sti­nesi. Ed è grave l’assenza annun­ciata dell’ANED, per la prima volta, anche se la bagarre si è sca­te­nata sull’assenza della «Bri­gata Ebraica». La quale ha le sue ori­gini remote niente meno in Vla­di­mir Jabo­tin­sky, sio­ni­sta estre­mi­sta di destra con legami negli anni ’30 mai smen­titi con Mus­so­lini, che con­vinse le auto­rità bri­tan­ni­che, nella I guerra mon­diale, a dar vita a una Legione ebraica. Nel II con­flitto mon­diale, fu Chur­chill a lasciarsi con­vin­cere a orga­niz­zare un Jewish Bri­gade Group, inqua­drato nell’esercito bri­tan­nico: 5000 uomini che ope­ra­rono in par­ti­co­lare nell’Italia cen­trale, contri­buendo alla libe­ra­zione di Ravenna e di altri bor­ghi. Ebbe i suoi morti, e le sue glorie. Bene dun­que cele­brarla. Ma non fu né avrebbe potuto avere un ruolo emi­nente, come sem­bre­rebbe a leg­gere certe dichia­ra­zioni. Ma il fuoco media­tico supera il fuoco delle armi. E che dire di ciò che avvenne dopo? Come sto­rico ho il dovere di ricor­darlo. Quei sol­dati diven­nero il nucleo ini­ziale delle mili­zie dell’Irgun e del Haga­nah — quelle che cac­cia­rono i pale­sti­nesi nella Nakba — e poi dell’esercito del neo­nato Stato di Israele, al quale offri­rono anche la ban­diera.

Si capi­sce l’imbarazzo dell’Anpi di Roma, tra l’incudine e il mar­tello. Ma quando leggo che il suo pre­si­dente afferma che «i pale­sti­nesi non c’entrano con lo spi­rito della manifestazione», mi vien voglia di chie­der­gli se gli amici di Neta­nyahu c’entrino di più. Altri hanno dichia­rato in que­sti giorni che biso­gna lasciar par­lare solo chi ha fatto la guerra di libe­ra­zione; ma se è così intanto andreb­bero cac­ciati dai pal­chi tanti trom­boni in cerca di applausi; e soprat­tutto se si adotta que­sta logica è evi­dente che tra poco non ci sarà più modo di festeg­giare il 25 aprile, per­ché, ahimè, i par­ti­giani saranno tutti scom­parsi.

E allora — visto l’articolo 2 dello Sta­tuto dell’Anpi che riven­dica un pro­fondo legame con i movi­menti di libe­ra­zione nel mondo — come non dare spa­zio a chi oggi lotta per libe­rarsi da un regime oppres­sivo, discri­mi­na­to­rio come quello israe­liano, rap­pre­sen­tato ora dal governo di destra di Neta­nyahu? Chi più dei pale­sti­nesi ha diritto oggi a recla­mare la «libe­ra­zione»? E invece temo si vada verso que­sto (addi­rit­tura in que­ste ore in forse a Roma) e i pros­simi 25 Aprile inges­sati e reistituzionalizzati.

Pubblicato in Orwell (fascismi, sessismi, controllo, censura) | Contrassegnato , , , , , | Commenti disabilitati su La rimozione nascosta della memoria (di Angelo d’Orsi)

La riserva naturale di Vendicari

vendicari0

Camminante ma poco, ultimamente.

Ansioso di andar per campagne, timoroso dei cani, desideroso di placare, camminando, l’inquietudine.

Troppo breve il tratto percorso nella riserva naturale di Vendicari (Siracusa) per poterne parlare come si deve. Troppo breve a fronte dei molti chilometri possibili, “accorciati” dall’ora, dall’acqua sul sentiero, dai capricci di mio figlio, quest’oggi in modalità piagnucolio continuo.

vendicari1

E tuttavia qualche parola voglio dirla, sul mio passeggio tra le canne, su passerelle basse di legno, tra l’acqua dolce degli aironi e quella blu del mare. La spiaggia è ricoperta – meglio, costituita – da alghe e spugne tonde; il percorso spesso si perde in lunghe pozzanghere.

spugne vendicari2

È un’immagine lussureggiante della Sicilia: tutt’altro che arida, l’isola ci accoglie verde di primavera e colorata di fiori.

vendicari3

La strada che si spinge in mezzo all’acqua, alla volta dell’antica tonnara posta in riva al mare, assomiglia a un istmo sottile, ma è straordinariamente presente, concreta. Gli uccelli, lontani, se ne stanno a mollo, oppure si levano in volo e si accomodano sul tetto di una casupola, forse per guardarci attraversare le acque.

vendicari4

Giungiamo alla tonnara.

tonnara vendicari6

Secondo il cartello la struttura, oggi abbandonata, è stata attiva almeno dal XVII secolo. Ciò che rimane è un edificio affascinante, caratterizzato da file di colonne che fanno pensare a un tempio antico. La particolarità del luogo, la posizione in riva al mare, la sua sobria eleganza non possono non farmi pensare a quanto sia bello: mi dico che sarebbe il posto ideale per una rappresentazione teatrale, o per un reading poetico.

vendicari7

Eppure, non riesco a non pensare allo scopo per cui quell’edificio, dalle forme quasi rasserenanti, è stato costruito. È da un paio di mesi che mi definisco «blandamente vegetariano», una categoria intermedia tra il carnivoro che sono sempre stato e il vegetariano vero. Diciamo che mi dispiace sempre di più per gli animali uccisi, e – pur non avendo smesso del tutto di mangiare carne – cerco di farlo il meno possibile.

vendicari5

Sarà per questo, dunque; sarà per il contrasto tra l’idea della morte e la solarità classica della pietra; sarà la presenza, inquietante, della ciminiera; in ogni caso non riesco a non provare un senso di pena, soprattutto leggendo le parole del cartello esplicativo, che ricorda l’esistenza di una costruzione sottomarina, l’«Isola», suddivisa in stanze, l’ultima delle quali si chiama «camera della morte» perché al suo interno, a un cenno del Rais, il capo della tonnara, «è mattanza».

Usciamo dalla tonnara e ripercorriamo la strada a ritroso, evitiamo il grosso delle pozzanghere con piccole deviazioni. Raggiungiamo la macchina.

Pubblicato in Camminante | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su La riserva naturale di Vendicari

Se tutto è merce

acqua_header

Privato è bello, il privato funziona meglio, i servizi gestiti dai privati sono più convenienti perché il privato non spreca, e bla bla bla…

L’esperienza quotidiana di tante realtà locali dimostra il contrario e l’indirizzo verso la ripubblicizzazione dei beni comuni, espresso dal popolo italiano attraverso il referendum del 2011, è quantomai disatteso. E il peggio deve ancora venire.

Recentemente, Corrado Oddi, del Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua, ha lanciato l’allarme contro il «nuovo e forte ciclo di privatizzazione e finanziarizzazione dei servizi pubblici locali, con cui si intende dare il colpo mortale all’esito referendario del giugno 2011 per la loro ripubblicizzazione» («il manifesto» dell’8 aprile).

QUI il testo completo dell’articolo di Oddi, che pone l’accento sulla «mirabile sintonia tra le scelte del governo Renzi e gli orientamenti della grande maggioranza delle amministrazioni locali incentrate sul Pd».

L’idea, per niente nuova, è quella che i beni pubblici vadano privatizzati, e che i servizi essenziali debbano essere affidati a chi li gestirà secondo la logica del profitto. Tutto è merce, in altre parole, nonostante la volontà popolare contraria espressa con chiarezza dai cittadini italiani meno di quattro anni fa.

Un processo al termine del quale «le grandi multiutilities quotate in Borsa gestiranno l’insieme dei servizi pubblici locali in tutto il Paese».«Iren in Piemonte, Liguria e l’Emilia orientale, A2a in Lombardia, Hera nella restante parte dell’Emilia e nel Triveneto, Acea in Lazio, Umbria, Toscana e parte della Campania saranno i grandi players che si spartiranno un grande mercato totalmente privatizzato, contando sulla rendita di tariffe che aumentano sempre più e che garantiscono ampi e certi margini di profitto».

Il Meridione, invece, sarebbe destinato a dividersi «tra l’influenza dell’Acquedotto pugliese, magari da privatizzare nel 2018, e la riaffermazione del ruolo della criminalità organizzata e il suo intreccio con la politica».

Si contraddice «in radice» l’idea di preservare i beni comuni «per le generazioni future», consegnadoli invece «al primato della finanza e della Borsa», dove la «vocazione di fondo è quella di distribuire dividendi ai soci, sempre più privati».

«Poco importa se questo si traduce in un calo fortissimo degli investimentidal 16,1% sui ricavi nel 2002 al 5,6% sui ricavi stessi nel 2013, due terzi in meno – e, soprattutto, in un incremento dell’indebitamento a un livello di guardia, salito dall’1,3% sul margine operativo lordo nel 2002 al 3,1% nel 2013».

Di fronte a questo scenario, il movimento per l’acqua si sta mobilitando: «occorre […] pensare, nell’autonomia di ciascuno, di connettere le lotte e le iniziative contro lo smantellamento dei diritti del lavoro, la totale privatizzazione del ruolo pubblico, lo stravolgimento del welfare, a partire dalla scuola».

L’invito è chiaro, il tempo non è molto.

Personalmente, credo che il modello economico di questo governo – lo stesso che i governi degli ultimi trent’anni hanno cercato di attuare, con maggiore o minor successo, si chiamassero i loro capi Amato, Ciampi, Berlusconi, Prodi o Monti – sia quanto di più iniquo e de-umanizzante.

Contro la mercificazione dell’esistenza occorre costruire il fronte più ampio possibile, fuori e dentro la politica tradizionale, sperimentando attività extra mercato nella propria vita quotidiana, senza per questo rinunciare a lottare per difendere le conquiste dello Stato sociale.

Nel mio piccolo, cercherò di ospitare in queste pagine denunce, buoni esempi e lotte che vanno in questa direzione.

>>> QUI l’articolo completo di Corrado Oddi.
>>> Il sito del Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua.

Pubblicato in Orwell (fascismi, sessismi, controllo, censura), Piazzetta della cittadinanza attiva | Contrassegnato , , , , | 2 commenti

Fare caso agli schermi

rottame_tv.jpg

Dobbiamo farci caso. Gli schermi – è ai teleschermi che mi riferisco – sono dappertutto.

Invadono i luoghi pubblici, quelli di tutti. Uccidono il silenzio, uccidono i rumori tradizionali.

Personalmente ho notato:

1) Televisore acceso al ristorante. Volume udibile. Programma scelto da altri. Volete rilassarvi, concentrarvi sulla compagnia e sul cibo, e vi ritrovate a fissare un programma imbecille in tivù. Alla fine pagate pure il conto.

2) Televisore nella sala d’aspetto del medico. Volume alto. Programma scelto da altri. Impossibile concentrarsi sul libro che ci si è portati dietro, speranzosi. Clima non ideale per scambiare quattro chiacchiere con gli altri pazienti in attesa.

3) Televisore nella camera d’ospedale. Presenza di più letti. Anche nella sofferenza o nel disagio della malattia, imposizione del programma o del volume da parte di altri malati. Impossibilità di riposare, concentrarsi in altra attività, leggere.

4) Aeroporto. Presenza schermi piccoli e grandi con notiziari e messaggi pubblicitari. Volume fortunatamente molto basso o ridotto a zero. Le stesse immagini si ripetono ossessive, senza fantasia.

5) Grandi stazioni. Qualcosa potrebbe essere cambiato rispetto al periodo in cui capitavo spesso a Milano Centrale, ma allora gli schermi – piccoli e grandi – vomitavano pubblicità con il volume alto. Fine della poesia dell’attesa o dei saluti in stazione.

Gli schermi nei luoghi pubblici possono sembrare un’innovazione positiva. Un simbolo di ricchezza. Un riguardo per la clientela (a questo siamo ridotti: clientela).

alzati_camminaSi tratta invece di un’aggressione alla libertà della persona di… passeggiare per strada, andare senza dover concentrare la propria attenzione su una trasmissione decisa da altri, su un prodotto da vendere, un ritornello commerciale.

La tivù in strada limita la possibilità di ragionare. La mente, ipnotizzata, non riesce più a vagare.

La tivù in strada limita la qualità del risposo e dello svago.

La tivù in strada pullula di programmi che non apprezzo, che non ho scelto e che mi fanno innervosire profondamente. Perché accettare l’imposizione del mezzo televisivo? Diciamo basta alla televisione obbligatoria.

Pubblicato in Orwell (fascismi, sessismi, controllo, censura) | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su Fare caso agli schermi

Stare solo in giro per le strade

mucche.jpg

Quel signore che ha parlato della possibilità di fare formazione durante l’estate, per permettere ai nostri ragazzi di lavorare «tre o quattro ore al giorno per un periodo preciso […] anziché stare solo in giro per le strade», ha detto una cosa che – devo immaginare – pensa davvero.

Il parere di quel signore è, giustappunto, un parere.

Il fatto, però, è che quel signore è ministro. Di conseguenza, il suo parere trova risalto sui media e tutti cominciano a parlare del fatto che tre mesi di vacanza – su 12! – sono troppi.

Io non sono ministro, ma la penso esattamente all’opposto.

Scrivetelo sui giornali, fate circolare la voce. Non sono ministro, ma sono autore di due libri di poesie. Nella terra di Dante.

Non sono ministro. Ma sono cittadino, sono insegnante, sono stato studente e ragazzo, e sono convinto che il modello di economia e di lavoro propagandato dal ministro e dai suoi colleghi di governo sia totalmente fallimentare. Fallimentare e de-umanizzante.

Sono convinto che la vita, perché sia vita, va vissuta per la maggior parte fuori dall’ufficio.

Sono convinto che la vacanza debba essere anche il tempo del «cazzeggio». Il tempo del riposo. Il tempo della libertà. E considero già esagerata la maniera in cui la società e lo Stato organizzano e gestiscono il tempo dei cittadini, giovani e adulti.

L’estate è il sole sulla pelle. Non ho nulla contro le esperienze lavorative: da che mondo è mondo, chi ha voluto le ha fatte. Se il ministro ha in mente un più facile accesso al mondo del lavoro – anche in via temporanea, durante le vacanze – con attività più formative dei classici impieghi di barista, cameriere, sguattero, ben venga.

Ma ho molti dubbi in proposito, e non mi piace il linguaggio del ministro.

Stare solo in giro per le strade.

Un mese di vacanza va bene, un mese e mezzo. Ma non c’è obbligo di farne tre.

Nessun obbligo, ministro. Ma che lo Stato non obblighi alla formazione, e che la «buona scuola» non obblighi all’ennesima trasformazione dei docenti in ciò che non sono e non devono essere: erogatori sottopagati di servizi che nulla hanno a che vedere con la loro professione e professionalità.

E, a tal proposito, non è che anche la formazione estiva si trasformerà in lavoro pochissimo o per nulla retribuito, con la scusa dell’esperienza e del curriculum, in stile volontari dell’Expo?

Infine, io sono contento di essere stato ragazzo al tempo delle vacanze lunghe. Di avere perso tempo, anche, magari fatto troppe notti fuori, senza curarmi del mio futuro lavorativo. Sono contento di aver condiviso la vita di altri luoghi, immagazzinato colori e ricordi, camminato in montagna.

E oggi ai più giovani consiglio questo, finché non li obbigheranno a far altro: non perdete il vostro tempo, usate le vostre vacanze per condividere esperienze con i coetanei, uscite, state all’aria aperta (a chiudervi in una stanza ci pensano già tutto l’anno, e dopo ci penseranno anche di più).

Leggete più che potete.

Innamoratevi più che potete.

Camminate. Viaggiate. State in giro per le strade. Incontrate gente.

Tre mesi all’anno sono vostri. Non fatevi portare via anche questi da chi crede che l’essere umano sia fatto per otto ore di lavoro al giorno, cinque giorni alla settimana, undici mesi all’anno.

>>> Di seguito, la mia poesia «Catena di smontaggio».

Catena di smontaggio

Credevamo che fossero conquiste
per sempre; basi da cui partire
per ottenere altri diritti;
che il progresso e la civiltà
marciassero appaiati.

Un pezzo alla volta, le garanzie
sono state smontate
per trasformarci in corpi da fatica:
alle nostre giornate
è stato tolto il luccichio del sogno.

Ora, mentre t’affanni
per dimostrare d’essere padrone
della tua vita, fischia
– come si fa col cane – il tuo padrone
vero: comincia il turno
straordinario, che sottrae al riposo,
ad affetti e interessi,
al semplice cazzeggio tempo umano.

[Mario Badino, «Cianfrusaglia», Edizioni END]

Pubblicato in Orwell (fascismi, sessismi, controllo, censura) | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su Stare solo in giro per le strade

Camminante – Passeggiata Villeneuve – Châtel Argent

Ancora un articolo del 2008 (in realtà un testo del 2006 rimaneggiato nel 2008), che avevo pubblicato nel blog come allegato e che chissà dov’è finito. L’intento – il lettore lo avrà capito – è quello di far ripartire la sezione Camminante, alla quale tengo molto.

Dopo la Puglia, è il turno della Valle d’Aosta, con la cronaca, spero poetica, della mia ascesa dal paese di Villeneuve ai resti di Châtel Argent. Oggi mi limito a pubblicare il resoconto, le foto le devo cercare.

PS: Senza che io lo sapessi, questo testo – reperito in internet – è stato usato da una compagnia teatrale per introdurre uno spettacolo tenutosi (o ambientato) a Villeneuve. Ne ho avuto notizia per caso, da un’amica che era allo spettacolo.

Passeggiata Villeneuve – Châtel Argent

Giunto a Villeneuve, parcheggio appena fuori del paese. La Dora ha tanti sassi e poca acqua; è limpida e fredda, accompagnata, lungo l’argine sinistro, da una fila di alberi spogli. Oggi è il secondo giorno di marzo e il termometro segna tre gradi sopra lo zero. Appena più in alto, però, il vento freddo sferza e gela il volto di chi sale. M’incammino lungo una stradina stretta, lastricata di pietra e scavata sul fianco della roccia.

Nel cimitero, che incontro dopo pochi metri, sorge l’antica chiesa di Santa Maria, risalente alla metà dell’XI secolo. Secondo il cartello, si tratta di una fra le più importanti testimonianze dell’architettura romanica in Valle d’Aosta, costruita su un sito frequentato sin dal neolitico e poi utilizzato dai romani. Si tratta di uno fra i più antichi centri di culto cristiani della regione, come testimonia la presenza, sotto la chiesa, di resti di un complesso di edifici del V secolo d.C.

Osservo da lontano, senza neppure verificare se il cancello è aperto o chiuso. Le tombe sembrano stringere la chiesetta d’assedio; alcune lapidi sono addossate ai muri. Giro su me stesso e continuo la marcia, salendo verso i resti di Châtel Argent, fortificazione posta a guardia della via di fondovalle. Mi reggo alle ringhiere di legno per procedere lungo il sentiero gelato. Una grossa nube ha coperto quel poco di sole che c’era. Dove manca la staccionata, devo pattinare.

Alcuni cartelli di legno mi fanno compagnia lungo l’ascesa. Li hanno realizzati i ragazzi della I A della scuola media di Villeneuve nell’anno scolastico 1994-95. Ricopio sul mio taccuino le iscrizioni ormai sbiadite: indicano i nomi delle piante e le loro qualità. Così il percorso si anima e si trasforma in un certame, nel quale alberi e arbusti litigano fra loro per decidere chi sia il più importante.

«Sono slanciato, elegante», dice il pioppo cipressino, «e ho le foglie cuoriformi».
«Ho buon legno per fare i mobili», risponde il pino silvestre.
«Sono pioniera», si vanta il larice: «dalla mia resina si ottiene la trementina».
«Ho bacche viola digestive e aromatiche», si bea il ginepro.

Avanzo, a passo lento. Sulla sinistra, a monte, gruppi di betulle; dietro di loro, la collina brulla, chiazzata di neve, e il cielo. Alla svolta del sentiero i primi brandelli di muro annunciano il castello. La torre pare uscire dritta dalla terra ed ergersi contro il cielo azzurro abitato da nuvole bianche che corrono nel vento. Dal paese giunge il suono del campanile, che batte le quattro e mezza. Quasi a tempo scaduto, interviene il crespino, ultimo concorrente, che informa:

«Sono spinoso. Ho bacche rosse ricche di vitamina C».

Un tempo, Châtel Argent (chiamato così perché vi si batteva moneta) era formato da un’ampia cinta muraria che racchiudeva la torre circolare, il corpo d’abitazione, una cisterna e una cappella. Ampi tratti di mura si sono conservati, la torre è rimasta pressoché intatta e anche i muri della cappella sono in buono stato. La cappella è la parte più antica, costruita probabilmente tra l’XI e il XII secolo, ma già in epoca romana il luogo ospitava una cisterna. Questa era caratterizzata da un intonaco di colore rosato molto suggestivo, tanto che de Tiller, nel suo «Historique de la Vallée d’Aoste», lo attribuì alla presenza prolungata di depositi di vino. La realtà è invece più prosaica, perché il colore era dovuto al coccio pesto – polvere di mattone – utilizzato come impermeabilizzante. L’aspetto attuale della fortezza risale al 1275, quando il territorio era sottoposto all’autorità del conte Pietro II di Savoia.

Varco la cerchia delle mura e non posso non pensare agli esseri umani che hanno camminato, lavorato, sognato, forse cantato e goduto in questo spazio un po’ distaccato dal mondo. Guardo la montagna e i boschi, oltre la rupe sulla quale mi trovo. Calpesto le erbe lunghe, ingiallite dall’inverno e pettinate dal vento. Ancora qualche passo e penetro nella cappella, piccola, senza più il tetto. L’unica navata dà ricetto a qualche alberello dal fusto minuto. Nell’abside, che guarda verso valle, si aprono due feritoie. Col viso appiccicato a una di esse, osservo dall’alto la chiesa di Santa Maria e il cimitero, la Dora che scorre (ora la poca acqua sembra verde), i campi e le case. Altre piccole balze, la chiesa di Saint-Pierre, il castello… Sulla mia zucca, invece del soffitto, il cielo incerto, sospeso tra l’azzurro e il bianco delle nubi. Lontano e silenzioso, vola un uccello nero.

Esco nuovamente sul prato ed ecco la torre, imponente, tra masse di nuvole forate dal sole. La oltrepasso e scendo dall’altra parte, fino alla statua che raffigura Nostra Signora degli alpini d’Italia, posta dalle penne nere di Villeneuve nel settembre del 1970. È spigolosa, a metà strada tra Boccioni e Picasso, ma bella contro il bianco del cielo. Alla Madonna, madre, è aggrappato disperatamente un soldato. Salgo più in alto; da dietro, vedo le braccia e le mani dell’alpino spuntare dietro le scapole della Madonna, stringere, cercando soccorso, le spalle di Maria.

Per scendere, prendo un’altra strada: qui la neve non è ghiacciata, ma riceve i miei passi cedendo appena. Posso azzardare una timida corsa. Sento il campanile battere le cinque e scendo giù, fin dentro il paese.

___________

PS: Ho scritto questo testo, se non sbaglio, nel marzo del 2006. Quest’anno sono tornato a Châtel Argent verso la fine di febbraio. Rispetto all’ultima volta, alcune cose sono cambiate, perché il comune di Villeneuve (o chi per lui) ha fatto alcuni lavori di manutenzione del sentiero e dell’area storica. Ci sono meno erbacce, gli arbusti all’interno della cappella sono stati rimossi, mi sembra che siano stati tolti alcuni cartelli con la descrizione degli alberi. Il posto, nel complesso, rimane stupendo e dà un’impressione strana, come di trovarsi appena fuori dal mondo: potresti immaginare qualche soldato di ronda sugli spalti, forse un fantasma degli antichi guerrieri di quel vecchio fumetto con Paperino vichingo, magari invece militari in attesa di un nemico che non arriva mai, come nella Fortezza del Deserto dei Tartari di Buzzati. [Aosta, 8 marzo 2008]

Pubblicato in Camminante | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su Camminante – Passeggiata Villeneuve – Châtel Argent