Provocazioni fasciste nell’Aosta del dopo elezioni

 Aosta. Edicola votiva con svastica
 Ho detto a suo tempo che mi candidavo alle elezioni comunali ad Aosta nella lista civica «Sinistra per la Città», che unisce la Federazione della Sinistra, l’Associazione radicale Loris Fortuna e alcune persone non iscritte a partiti (come me).
 Ho anche motivato la mia scelta come un tentativo di fare la mia parte per portare qualche voto a sinistra, in una città (e, in prospettiva, in una regione) in cui il partito da 30 anni al potere, l’Union Valdôtaine, sta virando pericolosamente a destra e si è accordato con Pdl e Lega.
 Domenica 23 maggio le elezioni si sono tenute e il risultato è stato a mio avviso catastrofico per la città, con l’accoppiata Union-destre che ha stravinto e si prepara a varare alcune «grandi opere», come una metropolitana di un chilometro e poco più in una città come Aosta (35mila abitanti!) per la modica spesa di 50 milioni di euro e 6-8 anni di disagi causati dai cantieri.
 Per chi fosse interessat*, il mio commento a caldo al voto l’ho fatto QUI.
 Continua intanto l’avventura della lista «Sinistra per la Città»: siamo riusciti a far eleggere un consigliere, Paolo Momigliano Levi, ex direttore dell’Istituto storico della resistenza di Aosta, coautore del comunicato stampa che mi permetto di pubblicare qui sotto, perché indicativo del clima che si respira negli ultimi mesi nel capoluogo regionale, tra croci celtiche che spuntano sui muri, volantini di CasaPound e intimidazioni.
 Per la seconda volta è stata imbrattato con
frasi e disegni nazifascisti il simbolo del Partito democratico davanti alla sede aostana.
 Alle vittime di questo gesto va la solidarietà di tutti gli antifascisti, compresa quella di chi scrive queste righe.
 
 Il comunicato stampa di «Sinistra per la Città»
 dal blog http://sinistraperlacitta.info/
 
 Aosta,
8 giugno 2010
 
 I candidati della lista civica «Sinistra per la Città» e il loro
rappresentante nel Consiglio comunale di Aosta manifestano tutta la loro
solidarietà alla federazione valdostana del Partito democratico il cui
simbolo è stato fatto oggetto, nuovamente, di una provocazione tanto
esecrabile, quanto vile, da parte di giovani che individuano in Hitler,
Mussolini e in Ezra Pound i loro modelli politici e culturali.
 
 L’episodio, anche nella città di Aosta, non è isolato e non può essere
ridotto ad una semplice manifestazione di subcultura.
 
 La mano che ha tracciato la svastica e scritte antisemite è la stessa
che sui muri della nostra città, inneggia all’Impero, all’Europa dei
nazionalismi e che incita all’odio razziale, con frasi del tipo:
«l’Italia agli Italiani: via gli ebrei e gli africani», ancora leggibile
in un vicolo d’Aosta.
 
 I manifesti, affissi di nascosto dal gruppo «Giovinezza al potere»
chiedono, tra l’altro, l’introduzione del “testo unico” nelle scuole
italiane, come avveniva sotto il regime fascista.
 
 L’apologia del fascismo e del nazismo, ivi compreso quello dei forni
crematori, è la manifestazione estrema di una deriva nostalgica che
cerca la sua legittimazione in Valle d’ Aosta. Ci auguriamo che
un’azione decisa e di contrasto avvenga anche dal PdL e dalla Lega.
 
 La lista civica «Sinistra per la Città» invita le forze democratiche
del paese a vigilare affinché i naziskin siano isolati e perché cessi
l’educazione all’odio e al razzismo, impegna il Consiglio comunale di
Aosta in occasione della sua prima riunione a condannare queste
provocazioni e chiede al Prefetto e Presidente della Giunta Regionale,
di impartire rigorose istruzioni alle forze dell’ordine perché
individuino i responsabili e i mandanti di azioni intollerabili, che
rischiano di degradare il confronto politico portandolo sul terreno
delle azioni violente, che già sono state compiute dai giovani di Casa
Pound e di Forza Nuova in altre città italiane e straniere, provocando
scontri di piazza.
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Viaggio in Kurdistan, attraverso il Paese che non c’è. Da Diyarbakir fino a Dogubeyazit, ai piedi del monte Ararat

 Della questione kurda il blog si è occupato
alcune volte.

 
“Lancio” l’iniziativa
dell’Associazione «Verso il Kurdistan» di Alessandria, che organizza un
«viaggio di conoscenza e di solidarietà attraverso l’Anatolia del
Sud-est, il Kurdistan turco».

 
Il viaggio inizierà il
27 luglio e si concluderà in Italia il 6 agosto 2010. Sono previste
partenze da Torino e da Roma e il costo è intorno ai mille euro (ma
molto dipende dal costo dei voli aerei
).

 
Faccio seguire a queste
brevi righe il testo «Viaggio in Kurdistan, attraverso il Paese che
non c’è. Da Diyarbakir fino a Dogubeyazit, ai piedi del monte Ararat
».
 
Per ulteriori
informazioni è possibile contattare (rapidamente) Antonio
(335/7564743) o Lucia (333/5627137).
 
 Viaggio in Kurdistan,
attraverso il Paese che non c’è. Da Diyarbakir fino a Dogubeyazit, ai
piedi del monte Ararat.

 Associazione onlus Verso il Kurdistan, Alessandria
 
 
 “La cosa più bella della rivolta kurda
 sono le donne che si alzano in piedi
 e prendono la parola, che da un
 avamposto all’altro hanno comandato
 reparti di uomini, che hanno saltato
 secoli in una generazione.

 
 La cosa più bella della rivolta kurda

 è la parola kurda, la canzone,

 il manifesto, il vocabolario trasmesso

 finalmente ad alta voce.
 

 Le cose più belle della rivolta kurda

 sono le montagne. Lassù è nato un popolo

 di liberi. La sua scuola è tra le rocce,

 la sua università nella prigione di

 Diyarbakir.”
 

 Erri De Luca
 
 
Si parte il 27
luglio
da Torino e da Roma.
 
 
Siamo all’ottavo
anno di questa esperienza di viaggio solidale e di conoscenza, in Kurdistan,
il paradiso della mezzaluna fertile, l’antico giardino dell’Eden, una
terra di antichissime civiltà, oggi deturpata dalle rovine di oltre
4.000 villaggi, da una presenza militare invadente, dalle galere piene
di detenuti politici, dall’ecocidio e dall’esodo dei profughi di guerra,
dalle grandi dighe in costruzione sull’alto corso dei fiumi che furono
culla dell’umanità, il Tigri e l’Eufrate.

 
 
Prima tappa Istanbul,
poi con volo interno si arriva a Diyarbakir, l’antica Amida,
capitale virtuale del Kurdistan turco. Del milione e mezzo di abitanti,
lo stato turco ne censisce neanche la metà, gli altri sono profughi che
popolano un’infinita periferia di dignitosa povertà. Le 22 moschee, la
chiesetta armena sopravvissuta al genocidio, la chiesa caldea, l’antico
bazar, e, soprattutto i cinque chilometri delle possenti mura romane che
circondano la città (le più lunghe, dopo la grande muraglia cinese),
con le ottantadue torri sull’alto corso del Tigri, le strade sempre
piene di gente, di suoni e di colori, ritornano nei sogni e nei canti
dei kurdi della diaspora.

 Nella città
di Diyarbakir abbiamo avviato, da anni, progetti di sostegno a distanza
delle famiglie dei detenuti politici, aiuti per l’associazione degli
handicappati e un progetto pilota per i bambini che lavorano in strada
nella sottomunicipalità di Baglar; qui, a novembre 2009, abbiamo
partecipato ai processi di minori condannati a svariati anni di carcere,
accusati di «essere fiancheggiatori del terrorismo».
 Da Diyarbakir, si sale verso Hasankeyf,
per vedere, forse per l’ultima volta, i resti di dodici millenni di
storia, prima che li sommergano le acque della diga di Ilisu, con
le pesanti conseguenze dell’esodo forzato di 60 mila kurdi, della
distruzione della valle del Tigri e il rischio di nuove guerre per
l’acqua con i paesi limitrofi.

 Hasankeyf,
capitale degli antichi regni d’Anatolia, vero e proprio museo
all’aperto, che ospita, oltre a chiese e moschee, anche la tomba del
sultano Suleymano, diretto discendente di Maometto, una città che ha
conosciuto ben nove civiltà diverse, ognuna delle quali ha lasciato
testimonianze.

 Luogo d’incontro delle
tre grandi religioni monoteistiche – la cristiano ortodossa, quella
cattolica siriana e quella islamista
– le sue torri hanno visto
passare arabi, mongoli, persiani, turcomanni, ottomani.
 
 Da Hasankeyf, si raggiunge Ilisu (polizia
permettendo!
), dove sono già iniziati i lavori per la costruzione
della diga, nonostante la marcia indietro fatta dalla cordata di banche e
imprese europee che avevano dato la disponibilità a finanziare il
progetto, tra le quali figurava anche l’italiana Unicredit,
attraverso una propria consociata austriaca.

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La Vicenza connection e gli affari delle basi chiama Novara connection

  Fermiamo le fabbriche della morte
 Ricevo e volentieri contribuisco a diffondere questo comunicato dell’Assemblea Permanente No-F35 di Novara che si batte contro il prossimo stabilimento di assemblaggio, nell’aeroporto militare della vicina Cameri, di alcune componenti del caccia bombardiere americano F-35, un velivolo offensivo di nuova generazione del quale l’Italia si appresta a comprare 131 esemplari (in barba all’articolo 11 della Costituzione, perché l’F-35 non serve per la guerra difensiva e con un dispendio economico enorme, che grida vendetta al cielo perché saranno utilizzati per mettere nella condizione di uccidere, soldi che potrebbero essere impiegati a vantaggio della cittadinanza), partecipando anche, come si è detto, al processo di costruzione.
 
 La Vicenza connection e gli affari delle basi chiama Novara connection
 di Antonio Mazzeo
  

 L’Impresa Costruzioni Maltauro di Vicenza vince la gara d’appalto per un valore di 150 milioni di euro per la costruzione di hangar, capannoni e una serie di opere, in particolare quelle legate alla sicurezza (obbiettivo sensibile) nell’aeroporto di Cameri per la realizzazione della FABBRICA DELLA MORTE.
 
 CHI è L’IMPRESA MALTAURO?
 
 Sedici contratti per un valore complessivo di 12.410.282 dollari è il bottino incamerato grazie alle basi Usa dall’Impresa Costruzioni Maltauro.
 
 L’importante azienda ha costruito piste per il decollo dei cacciabombardieri, hangar e palazzine per le truppe, depositi munizioni ed impianti idrici. Nella Caserma Ederle di Vicenza di proprietà dell’Us Army, la Maltauro ha realizzato un centro d’intrattenimento di 3.000 mq per i soldati e le famiglie statunitensi, dotato di 16 piste da bowling, due sale giochi, due sale meeting, una cucina con area self-service, un bar e diversi uffici amministrativi. Un altro complesso ricreativo è stato realizzato all’interno della base aerea di Aviano [Pordenone]. Nell’ambito del cosiddetto «Piano Aviano 2000» avviato da Washington per potenziare le infrastrutture e le funzioni dello scalo friulano, la società vicentina sta realizzando un edificio di circa 1.000 mq per nuovi uffici operativi e ristrutturando tre aree destinate a parcheggio, ricovero ed officine dei cacciabombardieri a capacità nucleare dell’Us Air Force. I lavori per un ammontare di 11.514.816,40 euro sono iniziati nel gennaio 2007 e avranno una durata di circa quattro anni.
 La vocazione militare della società di costruzioni è pure confermata dall’importante commessa ottenuta in Libia nel giugno 2008 [valore 11.289.000 euro] da parte della «Liatee – Lybian Italian Advanced Tecnology Company», la joint-venture controllata dalla compagnia aeronautica di Stato della Libia e dai colossi del complesso militare industriale italiano Finmeccanica e AgustaWestland. Alla Maltauro è stata assegnata la realizzazione ad Abou-Aisha, nelle vicinanze dell’aeroporto di Tripoli, di un fabbricato per l’assemblaggio e la manutenzione degli elicotteri da guerra «A109 Power», prodotti su licenza AgustaWestland, con una configurazione per il pattugliamento marittimo e la vigilanza delle frontiere. L’8 luglio 2009 la Maltauro ha inoltre vinto la gara per l’ampliamento e la ristrutturazione dell’aerostazione di Pantelleria. Si tratta di opere finalizzate principalmente al traffico civile ma l’isola nel cuore del Mediterraneo è sede di un distaccamento dell’Aeronautica Militare impegNato principalmente in compiti anti-immigrazione. Sulle due piste di volo di Pantelleria vengono stabilmente schierati i velivoli F-16 ed Amx del 37esimo Stormo di Trapani-Birgi e di altri reparti dell’Aeronautica. E accanto allo scalo c’è pure un immenso hangar realizzato all’interno di una collina che funge da ricovero protetto per i cacciabombardieri e da deposito munizioni delle forze militari Nato. L’Impresa Costruzioni Maltauro ha pure tentato di sedersi al banchetto dei lavori per la nuova base al Dal Molin, ma l’appalto è stato assegnato alle due aziende leader della LegaCoop, la Cooperativa Muratori Cementisti di Ravenna e il Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna. Con l’arrivo a Vicenza dei 1.200 militari più familiari attualmente ospitati in Germania si aprono però enormi frontiere per il mercato immobiliare e speculativo. Fioccano così le presentazioni-approvazioni di varianti ai Piani regolatori per la costruzione di residence per il riposo dei nuovi guerrieri Usa. Tra i progetti in pole position quello per centinaia di milioni di euro che la Maltauro sta eseguendo a Caldogno, comune che dista pochi chilometri dall’ex aeroscalo vicentino. I lavori, autorizzati dall’amministrazione locale il 3 dicembre 2007, prevedono la costruzione di due blocchi per 76 unità abitative di lusso, un grande centro commerciale, bar, ristoranti, negozi, centri fitness, impianti di calcetto e finanche una piscina olimpionica.
 Ancora più ambizioso è il piano presentato dalla stessa società a Lentini, in Sicilia, per un «complesso insediativo chiuso ad uso collettivo», destiNato a «esclusiva residenza temporanea dei militari americani della base Us Navy di Sigonella». In due terreni per complessivi 91,5 ettari, il cui cambio di destinazione d’uso è stato autorizzato dal Comune il 18 aprile 2006, la Maltauro intende realizzare «1.000 casette a schiera unifamiliari con annesso verde privato e parcheggi, un residence per la sistemazione temporanea per i militari in attesa dell’alloggio definitivo, attrezzature ad uso collettivo per l’istruzione, lo svago e il terziario, impianti sportivi, relative opere di urbanizzazione primaria e un sistema di guardiole per il presidio di controllo e sicurezza». Si prevede un investimento per oltre 300 milioni di euro con l’insediamento di 6.800 abitanti e un volume complessivo di 670.000 metri cubi di costruzioni e una superficie coperta di 195.000 metri quadri. Una vera e propria città satellite in un’area di particolare pregio paesaggistico, storico e naturale, a cui potrebbero aggiungersi le opere viarie e i servizi per «rendere facilmente fruibile» ai militari Usa il lago di Lentini, Sito di interesse comunitario [Sic] e Zona di protezione speciale [Zps] della Provincia Regionale di Siracusa. Per l’affaire di Lentini, la Maltauro ha costituito ad hoc la «Scirumi S.r.l.», congiuntamente ad una società nella titolarità dei cinque figli del cavaliere Mario Ciancio, editore-proprietario del quotidiano La Sicilia e di numerose emittenti radiotelevisive siciliane, nonché azionista degli altri due quotidiani regionali, il Giornale di Sicilia e la Gazzetta del Sud. Al cavaliere Ciancio erano intestati i rigogliosi aranceti poi venduti alla Scirumi per l’insediamento del residence Usa.
 
 (Fonte: Antonio Mazzeo. Articolo intero: La Vicenza connection e gli affari delle basi)
 
 NO F-35 + SPESE SOCIALI – SPESE MILITARI
 
Assemblea
Permanente No-F35 (Novara)


 
 Il costo dello stabilimento Faco dagli atti del Parlamento è quantificato in 775 milioni di dollari, 605,5 milioni in euro, tra l’altro rispetto al preventivo del 2006 i costi sono triplicati.
 
 La linea d’assemblaggio Faco sotto la spinta del governo italiano diventerà un sito di manutenzione per tutte le flotte in dotazione ai paesi europei, infatti Lockheed d’ora in avanti proporrà agli altri partner europei di appoggiarsi sull’Italia e dunque su Cameri per l’assistenza dei veivoli.
 
 Il territorio per 40 anni subirà il rischio di pericolosi incidenti aerei in fase di collaudo. un massiccio inquinamento e la militarizzazione per essere diventato un obbiettivo sensibile in caso di inevitabili conflitti causati da una cultura guerrafondaia.                   
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Palestina. Qualcosa si muove

 Carlos Latuff. Israele minaccia la «Rachel Corrie»
 Alla fine anche la «Rachel Corrie» è stata abbordata e costretta a
raggiungere il porto israeliano di Ashdod.
 Il blocco di Gaza non è stato infranto.
 Nessun incidente, questa volta: evidentemente Israele non vuole
spezzare la corda già tesa dei propri rapporti con buona parte del
mondo. Compresi molti Paesi amici.
 È questa, ancora, la speranza: che l’intransigente tracotanza di Tel
Aviv porti la comunità internazionale a pretendere la fine dell’embargo.
E siccome nei momenti storici una cosa trascina l’altra, la "apertura"
di Gaza potrebbe avere ripercussioni positive sulla Cisgiordania
tagliata dal muro e su tutta l’area, così come il crollo di un muro in
Germania fu la premessa per la fine di un sistema e di un’epoca.
 A bordo della «Rachel Corrie» c’erano 19 pacifisti «veri», secondo la
distinzione ipocrita delle autorità israeliane, che nella nave turca
teatro del sanguinoso assalto costato la vita ad almeno 9 attivisti,
avevano individuato invece «amici dei terroristi» (un riferimento ai loro
stessi uomini, feroci protagonisti di un omicidio plurimo?
).
 Qualche nome dei nuovi sequestrati (non tradotti in carcere, stavolta,
per non perdere ulteriormente la faccia col mondo
):
 Mairead Maguire, premio nobel per la pace 1976;
 Denis Halliday, ex vice segretario generale dell’Onu;
 Matthias Chang Wen Chieh, ex segretario politico del premier malese.
 Non c’era invece, come avevo erroneamente annunciato, Edy Epster, ebrea
85enne sopravvissuta ai campi di sterminio. Se ho capito giusto, si
trovava sulle navi fermate lunedì. «Conivolta in tutti i viaggi del Free
Gaza Movement», scrive sul manifesto del 6 giugno Vittorio Arrigoni,
volontario italiano dell’International Solidarity Movement attualmente a Gaza,
«non ha ancora coronato il suo sogno: visitare la Striscia prima di
morire». «Avrà molto presto un’altra chance, poiché flotte di navi
cariche di aiuti umanitari continueranno a sfidare la pirateria finché
l’assedio non verrà spezzato».
 Questa è la forza della Free Gaza Flotilla: perseverare, allo scopo di
forzare il blocco
, puntando a smuovere l’opinione pubblica
mondiale; smascherare Israele, mettendone a nudo la politica repressiva.
 Dice ancora Arrigoni che dalla Germania è pronta a salpare la prima
barca di attivisti ebrei
in direzione di Gaza.
 Dalla Turchia, invece, il capo del governo annuncia di voler essere a bordo di
una delle prossime navi.
 Sempre dalla Turchia, si annuncia l’idea – pericolosa, in verità – di
scortare con navi militari il prossimo convoglio, mentre una ong turca
pensa di investire 25 milioni di dollari nella ricostruzione della
Striscia devastata dall’embargo e dai bombardamenti del «Piombo Fuso»,
terminati poco più di un anno fa.
 Nel bene e nel male, tra speranze, ingiustizie e tragedie, qualcosa si
muove
e lo Stato di Israele non potrà non prendere atto della necessità
di cambiare la propria strategia, se non vuole essere travolto
dagli eventi.
 
 
Disegno
di Carlos
Latuff

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L’articolo di Angela Lano e il video-farsa divulgato dal governo israeliano

 
http://www.youtube.com/watch?v=DJlhczr-JLQ

 
 «Israele, hai perso»,
ha scritto Angela Lano, rientrata in Italia dopo essere sequestrata dallo Stato di Israele insieme agli altri attivisti della Gaza Freedom Flotilla.
 
Un articolo che invito a leggere sul sito Infopal.it.
 
Frattanto ieri, 4 giugno, l’ufficio stampa del governo israeliano ha divulgato per errore un video-farsa sul sanguinoso arrembaggio costato la vita a 9 persone, creato da Latma Tv e intitolato «Flotilla-We con the world» (Flotilla-Noi inganniamo il mondo), parodia di «We are the world». Il governo israeliano ha inviato per e-mail il link a una serie di giornalisti, rendendosi conto della gaffe dopo quasi tre ore.
 
Naturalmente, se il governo di Israele non c’entra con la produzione del video, occorre interrogarsi sul buon senso e la delicatezza di Latma Tv, come sull’opportunità per l’esecutivo di Tel Aviv di baloccarsi con simili indegnità, senza rispetto per la morte di 9 esseri umani e per le sofferenze di un intero popolo.
 
Chi conosce l’inglese nel
video
sentirà finti attivisti cantare che a Gaza non sta morendo nessuno e che perciò bisogna organizzare uno «show», un «bluff» perché il mondo creda che «Hamas è Madre Teresa» e l’esercito israeliano «Jack lo Squartatore».
 
Al momento in cui scrivo, intanto, non ho otizie della «Rachel Corrie», la nave pacifista intitolata alla 23enne attivista dell’International Solidarity Movement uccisa a Gaza da un bulldozer. L’imbarcazione dovrebbe aver raggiunto il punto in cui erano state abbordate le altre navi del convoglio tra le 20 e le 21 di ieri e potrebbe raggiungere la Striscia oggi in mattinata, Israele permettendo. Continua a leggere

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Boicottare Israele: una speranza di pace

I prodotti israeliani hanno il codice a barre che comincia con 729
 
I recenti
fatti della Free Gaza Flotilla, attaccata illegalmente in acque internazionali dalla marina israeliana (9 i morti accertati fra i pacifisti), ha fatto tornare in primo piano la necessità di adoperarsi per fermare la politica omicida di Israele, rivolta innanzitutto contro i palestinesi di Gaza (un milione e mezzo di esseri umani privati della libertà di movimento e sottoposti a un duro embargo, che include i generi di prima necessità, alimenti e medicine compresi).
 
 Negli ultimi quattro anni, Gaza è rimasta bloccata e, a intervalli, colpita da bombardamenti aerei e "omicidi mirati" (l’azione più grave è stata naturalmente l’operazione «Piombo fuso» che per 22 giorni, tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, ha colpito la Striscia, causando più di 1200 morti, la maggior parte dei quali civili).
 
 Anche in Cisgiordania, i soprusi e le ruberie di terre, attraverso il proseguimento della politica di espansione delle "colonie" israeliane, sono all’ordine del giorno e un muro dell’infamia divide le zone israeliane da quelle palestinesi, separando arbitrariamente appezzamenti e famiglie, assegnando le risorse maggiori (anche idriche) a Israele.
 
 Israele, nonostante questa politica vergognosa, lesiva dei principali diritti umani, continua a godere di ottimi rapporti con l’Occidente: con gli Stati uniti, ma anche con l’Unione europea, che è oggi il primo partner commerciale di Tel Aviv. Se gli Stati europei volessero davvero ottenere pace e giustizia in Palestina non avrebbero altro da fare che minacciare l’interruzione degli scambi commerciali.
 
 In attesa di un’assunzione di responsabilità da parte dell’Occidente (e nella speranza che i continui eccessi della "politica" israeliana finiscano per ritorcerlesi contro: l’isolamento di questi giorni potrebbe essere la premessa per un cambio di rotta?), tutte e tutti possiamo fare la nostra parte, come cittadini responsabili, boicottando l’acquisto dei prodotti israeliani.
 
 I prodotti israeliani sono quelli il cui codice a barre comincia con 729 (come nell’immagine di questo articolo).
  

 Può sembrare velleitario, ma è quanto ci chiedono gli attivisti internazionali presenti in Palestina: infliggere un danno economico è l’unica cosa che può far riflettere chi per interesse è disposto a calpestare i diritti umani.
 

 
Naturalmente, lo dico per le solite "anime candide" che accusano i detrattori della politica della guerra di voler punire una
popolazione intera o di essere antisemiti, non si tratta di affamare Israele, che dispone di risorse
infinitamente più grandi (facciamo un esempio) di quelle di Gaza (lei sì sotto assedio), e di una libertà
di movimento incommensurabilmente maggiore.
 
 Si tratta di lanciare un segnale, piuttosto, a chi
di
segnali ne lancia in continuazione con le bombe e i commando armati. Per questo, occorerrà pubblicizzare il proprio boicottaggio con azioni dimostrative, oppure scrivendo alle ditte che si è deciso di danneggiare economicamente, spiegando le ragioni per le quali non acquisteremo più i loro prodotti e che cosa dovrà accadere perché il boicottaggio abbia fine.
  

 Non si tratta, infatti, di uno strumento eterno, ma di una risorsa limitata alla fascia temporale
suggerita dalla coscienza dei boicottanti: magari la fine del blocco di Gaza e l’avvio di un vero processo di pace.

 

 Consulta la lista
dei codici a barre di tutte le nazioni
e alcune notizie sulle relazioni
economiche tra Italia e Israele
e sulle aziende italiane che
commercializzano prodotti israeliani.

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Aspettando la Rachel Corrie (2)

 Opera di Carlos Latuff
 A bordo della «Rachel Corrie», che continua il suo viaggio in direzione di Gaza, c’è una donna ottantacinquenne, Hedy Epstein. Hedy Epstein è ebrea e reduce dai campi di sterminio nazisti. Fra poco scopriremo se i commandos della marina militare israeliana le riserveranno lo stesso trattamento dei 9 attivisti uccisi sulla nave turca abbordata, o quello dei 700 prigionieri arrestati illegalmente, molti dei quali picchiati e finalmente espulsi (espulsi da un Paese nel quale non avevano mai cercato di entrare, visto che si trovavano in acque internazionali al momento dell’arresto e la loro meta era Gaza, non Israele).
 Hedy Epstein a bordo dell’imbarcazione, determinata a portare il proprio messaggio di solidarietà al milione e mezzo di progionieri di Gaza, affamati da un embargo anche questo illegale, potrebbe suggerire allo Stato che ama definirsi ebraico le contraddizioni della propria politica, lo stridere delle politiche attuali con quanto subito dal popolo d’Israele in un passato non lontano, che forse avrebbe ancora qualcosa da insegnare a chi non vuol rischiare nuovi olocausti.
 Hedy Epstein contraria alla politica di Israele dovrebbe dipingere per ciò che è – un’idiozia – la solita accusa di antisemitismo per chi osa criticare le azioni di Israele.
 Come anche la posizione di Miriam Marino, della rete Ebrei contro l’occupazione, che in un bell’articolo smonta i vaneggiamenti razzisti di Fiamma Nirenstein pubblicati da «il Giornale» di Vittorio Feltri (QUI il gruppo Facebook per chiederne la radiazione dall’ordine dei giornalisti), quello che titolava: «Israele ha fatto bene a sparare. 10 morti fra gli amici dei terroristi».
 Qualche riflessione sull’apertura del valico di Rafah, al confine con l’Egitto, si trova invece in Guerrilla Radio, il blog di Vittorio Arrigoni, l’attivista italiano per i diritti umani presente a Gaza. Insieme alla notizia di una nuova flottiglia pronta a partire per Gaza, scortata questa volta da navi da guerra turche.
 L’entrata in gioco di navi da guerra potrebbe implicare un precipitare degli eventi in senso negativo (quale risposta attendersi da Israele?), ma l’impressione è comunque che l’attacco omicida e dissennato ai pacifisti internazionali (più che l’embargo illegale che stringe Gaza d’assedio da 4 anni o l’operazione «Piombo Fuso» a cavallo tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009) abbia innescato un moto di disapprovazione troppo grande per essere bloccato dal consueto intervento degli Stati Unitio (e dell’Italia, purtroppo).

 Forse,
almeno, il mondo comincia
ad accorgersi che a Tel Aviv si è abbondantemente passato il segno.
 
 Disegno di Carlos Latuff
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