Secondo il rapporto annuale Istat, la popolazione italiana ha superato quota 59 milioni. Ma se si torna a crescere il merito è degli immigrati. Quegli immigrati che, secondo il ministro Ferrero, «rappresentano ormai una parte consistente della popolazione del nostro Paese e contribuiscono alla crescita dell’Italia» (costituiscono il 7% della popolazione nelle regioni del Nord). Tanti italiani nuovi, nostri connazionali, insomma, ufficialmente oppure “di fatto” (è un po’ come per le coppie non sposate, che funzionano come tutte le altre, ma non hanno alcun riconoscimento istituzionale). Persone che lavorano, pagano le tasse e fanno figli. Cittadini cui ancora la politica stenta a riconoscere i diritti, ma cui l’impresa ha già assegnato il ruolo, speriamo solamente temporaneo, di manovalanza da sfruttare.
Nell’articolo di fondo del manifesto in edicola oggi, Gabriele Polo, condirettore del quotidiano, traccia un quadro impietoso del «melassoso declino», al tempo stesso «sociale, istituzionale, politico» del nostro Paese, cui oppone un unico dato positivo, quello demografico. L’Italia, sostiene Polo, cresce grazie agli immigrati, che incidono positivamente sul tasso di occupazione e su quello di natalità. Che, silenziosamente, stanno cambiando il nostro Paese, arricchendolo tanto dal punto di vista economico, quanto da quello culturale.
Con buona pace dei calderoli di tutti gli schieramenti, aggiungo io.
Non si tratta, naturalmente, di «un percorso indolore, per “loro” come per “noi”, perché ciascuno porta con sé anche le proprie miserie». Ma, il percorso è, da un lato, l’unico possibile, e dall’altro, estremamente arricchente.
Nel confronto tra i motivi di sfiducia e quelli di speranza per le sorti della Penisola, dall’articolo emerge un contrasto tra il «ristagno del piccolo mondo “ufficiale” del Belpaese», che pensa unicamente di inglobare o respingere lo straniero, e l’«evento dinamico, incomparabilmente innovativo», costituito dalla «creativa contaminazione del nuovo mondo», vero «sasso» lanciato «nello stagno della melassa italiana».
L’immigrazione, «processo inarrestabile», aiuterà il Paese a sprovincializzarsi, a mettere «in discussione le nostre chiusure», a porre, «in tempi di asseriti scontri di civiltà […] l’obiettivo di una civiltà più larga e universale».
Fin qui l’articolo di Polo.
Naturalmente, nel Paese esistono anche movimenti “autoctoni”, che spingono al cambiamento e si propongono di riformare il sistema, cercando di spezzare i poteri delle caste, delle lobby e di riformare ciò che oggi appare irrimediabilmente corrotto. Tra i motivi di speranza, possiamo metterci anche questo: molti immigrati cominciano a partecipare alle manifestazioni, ai movimenti (la foto che correda questo articolo è stata scattata a Vicenza, durante il corteo del 17 febbraio), realtà di lotta democratica che forse sapranno costituire il punto d’incontro delle diverse realtà, fino a diventare fucine di integrazione, quell’integrazione che nasce dalla reciproca contaminazione, non dall’omologazione del più debole alle istanze del più forte.
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