30 assolti su 46 imputati e in più pene lievissime, che presto saranno cancellate dalla prescrizione: si conclude così il primo processo alle forze dell’ordine macchiatesi di tortura nella caserma di Bolzaneto ai tempi del G8 di Genova. A distanza di sette anni (proprio in questi giorni cade l’anniversario) le ferite inferte alla democrazia non si sono ancora rimarginate. Del resto, chi ha sferrato i calci e i pugni, chi ha costretto i fermati ad attendere per ore in piedi e ha loro imposto di cantare: «Uno due tre, viva Pinochet» e «Duce, Duce», chi si è macchiato di quella che, secondo Amnesty International, è «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale», è ancora al proprio posto, a tutela dell’ordine pubblico, quando non ha fatto direttamente carriera. Fino a oggi, le forze dell’ordine non sono state ripulite dalle «mele marce» e chi al tempo ricopriva la carica di Ministro degli Interni ha solo cambiato Ministero. I massacri, alla fine, resteranno impuniti. Ciò nonostante, ha ragione Vittorio Agnoletto, all’epoca portavoce del Genoa Social Forum, quando afferma di ritenere «positivo il riconoscimento dei reati e delle vittime attraverso i risarcimenti e il fatto che i ministeri siano chiamati in solido a rispondere». Secondo Agnoletto, inoltre, «le assoluzioni per insufficienza di prove riconoscono la gravità dei fatti anche se si tende a diminuire la portata delle responsabilità individuali».
Di fronte all’orrore, i risultati del processo genovese suonano insultanti. Ma non si può fare a meno di condividere il parere di Agnoletto almeno su un punto. Certo, i «cattivi» non pagheranno, l’«esempio» non sarà dato e questo, specie nell’attuale clima politico, non potrà che avere ripercussioni negative sulla società italiana. Ma, almeno, una cosa è stata detta: le forze dell’ordine si sono comportate male. Oggi è assodato. È un dato di fatto. E scrivo queste parole pensando a tutte quelle persone, che pure stimo, convinte che i fatti del G8 siano stati una questione di ordine pubblico reso impossibile da tutelare dalla violenza dei manifestanti, o magari dal fatto che il governo aveva accettato di trattare con i vari Casarini, per essere poi da questi «tradito». L’ho sentito dire tante volte, anche a persone intelligenti e buone. Che la sentenza di Genova, del tutto insufficiente a rendere giustizia, serva almeno a questo, allora: a mettere nero su bianco, una volta per tutte, che in una democrazia il comportamento delle forze dell’ordine non può essere quello dei delinquenti (veri o presunti) e che ci sono regole che bisogna rispettare. Certo, la pratica è in grado di schiacciare la teoria e la promozione di molti fra i torturatori parla più forte delle condanne emesse. Per questo sta a noi ricordare, parlare, tenere viva la memoria e rendere testimonianza di quanto è accaduto, ma anche vigilare per fare in modo che non si ripeta alla Maddalena, magari, oppure in Val di Susa.
Alcuni mesi fa, ho chiesto a Alex Glarey, che ai tempi del G8 era il portavoce dell’Aosta Social Forum, di scrivere intorno a quei giorni un testo «suo». Nonostante si fosse in piena campagna elettorale (Alex era candidato nella lista dell’Arcobaleno per le elezioni regionali della Valle d’Aosta), il testo è arrivato, ma io, preso da mille cose, ho sempre dimenticato di pubblicarlo. Rimedio ora, sperando che possa essere un contributo per non dimenticare. E per «resistere», come dice Alex.
Il testo di Alex:
«Genova. Solo chi è stato in quelle strade può capire», dice il collettivo di narratori Wu Ming. E hanno ragione.
Quel matto di Mario mi ha chiesto di scrivere 2 righe sul G8 di Genova, proprio ora che siamo tutti (e chi non lo è, dovrebbe) impegnati nella campagna per le elezioni regionali.
Eppure, in tempi che sanno di pazzia, sono proprio i matti a dire cose sensate.
È una buona pratica, quasi un antidoto, ragionare sul mondo, quando sei così concentrato sugli aspetti locali della politica. Altrimenti si rischia di pensare che tutto si limiti alla sacrosanta lotta di liberazione della Vallée dal partito degli affari, mentre nel resto del mondo si giocano partite molto più complesse, che ci riguardano da vicino: l’acqua, la fame, la global war e il global warm.
Il G8… È paradossale, l’Italia si sta preparando ad ospitare un nuovo vertice G8, e non ha ancora chiuso i conti con quello sanguinoso del 2001. Anche questa volta, il vertice è stato deciso e preparato dal centrosinistra e sarà invece gestito dal centro (Dov’è il centro!?) destra.
Il G8 fu una tappa fondamentale del cammino, fino a quel momento vissuto come inarrestabile, del movimento altermondialista: i così detti No/New global, quelli dell’altro mondo possibile. Dalla rivolta di Seattle, il contagio aveva coinvolto il mondo intero, ovunque si era attivata una rete sotterranea preparata con cura e pazienza dalle mille talpe della società civile: partiti e sindacati si ritrovavano con i gruppi di pressione, gli ambientalisti, l’intellettualità diffusa metropolitana, i migranti… Per la prima volta, si metteva in discussione il dominio, soprattutto culturale, del Pensiero unico della globalizzazione neoliberista. I vertici delle grandi organizzazioni internazionali erano ovunque contestati, e in maniera sempre più imponente. Si intravedeva una nuova egemonia culturale: libri, film, musica, personaggi (do you remember? Matrix, Fight club, No logo, Contro il capitalismo globale, Impero, il Sub comandante Marcos, Lilliput, le tute bianche, le Posse e i Rage Against Machine…). In quegli anni, ho girato l’Europa e l’Italia sull’onda di manifestazioni sempre più partecipate e determinate: Roma, il WEF di Davos, Bologna no Ocse, il Cpt di Milano, Praga, Nizza…
E poi è arrivata Genova: una calamita per un movimento oramai mondiale e maturo.
Genova non è stata solo le giornate di luglio, ma i mesi che l’hanno preceduta, che hanno visto anche le più piccole realtà territoriali, come la nostra, organizzare assemblee, volantinaggi e azioni dimostrative, in un crescendo di coscienza, che portò nel capoluogo ligure più di 100 valdostani.
E poi c’è stata Genova, quella dei gas, delle botte, delle torture, dei proiettili. Della perdita dell’ingenuità. Pensavamo di «cambiare il mondo con le nostre idee» (così cantavano quelli con le mani bianche alzate al cielo, prima che fossero, anche loro, massacrati dai reparti antisomossa).
Chi era in quelle strade ricorda la sensazione di straniamento nel vedere la polizia non fermare le cariche, ma continuare a pestare la gente per terra, l’orrenda consapevolezza che il diritto, nella zona rossa, non esisteva più e che non potevi chiedere aiuto alla polizia, perché era da loro che scappavi. Certo era il CS gas che faceva piangere e stringeva la gola, ma forse anche la sensazione che niente sarebbe più stato come prima.
La notizia dell’uccisione di un ragazzo, uno di noi. Solo un anno dopo, ritornando per le commemorazioni, mi accorsi che un’ora prima c’eravamo passati anche noi in quella maledetta piazza Alimonda.
E poi la notte allo stadio Carlini, circondati da un esercito di poliziotti, con gli elicotteri che ti passavano sulla testa, neanche fossimo stati in Cile.
La paura per i compagni persi nella folla, la gioia di ritrovarsi, la sensazione, vedendo poi le immagini in TV, di essere dei sopravvissuti. La rabbia impotente nel sapere, ormai ad Aosta, quello che accadeva alla Diaz.
Il dopo Genova durò pochissimo e un’eternità. Il movimento non cadde nella trappola del rispondere alla repressione con una violenza obbligatoriamente asimmetrica, ma non riuscì nemmeno a ritrovare una nuova via per riprendere la strada delle piazze e del conflitto (salvo l’appuntamento di Firenze del Forum Sociale europeo). Molti compagni si persero per paura, per senso d’impotenza. Compagni fantastici che però non riuscirono a reggere di fronte all’enormità di quello che avevano visto quel giorno: il volto del potere, quello che ogni giorno ammazza la gente nel Sud del mondo e che a noi sembrava così lontano.
E poi arrivò l’11 settembre a dare la mazzata finale.
Ed ora che viviamo nell’era del Berlusconi quater, con Roma nera, mi dico che forse l’operazione di rincoglionimento culturale operata dalle TV e dalla pubblicità ha regalato l’egemonia alle nuove destre individualiste e comunitariste, ma certo il manganello della repressione ha spento sul nascere i fuochi dell’alternativa.
Ora si tratta di resistere. Riaggregando, facendo cultura, tenendo viva la memoria (Genova compresa).
Il prossimo G8, come momento di resistenza, probabilmente non sarà in Sardegna (troppo diverso è il contesto attuale), ma a Vicenza, in Val di Susa, allo Stretto di Messina…
Prepariamoci, mettiamo in moto le nostre intelligenze collettive, per evitare che la storia si ripeta.
Alexandre Glarey
Dal momento che non ho foto del G8, ho tratto da Wikipedia l’immagine che correda l’articolo. L’autore, c’è scritto, è Ares Ferrari. Se ho capito giusto, la riproduzione di questa fotografia è libera, ma nel rispetto della sua licenza di pubblicazione.