Sempre senza soldi

Oggi (ieri, in realtà) in un servizio alla radio ho sentito che le ferrovie italiane costano troppo poco. Lo ha detto Padoa Schioppa. Costano troppo poco significa che nel resto d’Europa costano di più. Ma che senso hanno certi paragoni? I nonni, quando facevo un compito in classe, quando davo un esame all’università, mi chiedevano che voto avevo preso. Se era bello, volevano sapere se ce n’erano stati altri o no, quasi che il voto acquistasse un’importanza maggiore se l’avevo preso solo io. Che senso ha? Perché paragonare? Il presidente di un’associazione di consumatori ha risposto al ministro dell’economia dicendo che non è vero niente, che le tariffe europee sono più basse e ha fatto l’esempio della tratta Roma-Fiumicino che costa circa 11 € contro i 2 euro e qualcosa dell’analoga tratta che unisce l’aeroporto di Bruxelles alla capitale belga. Ha anche fatto notare che spesso in Italia il servizio non vale il prezzo del biglietto. Ma il punto non è questo: se anche in Italia i treni costassero veramente di meno, che bisogno ci sarebbe di aumentare le tariffe? Per quale ragione dovremmo rendere tutto più caro? Perché altrimenti Trenitalia rischia di fallire? No: solo perché altrove è cosìPerché facciamo i paragoni!


Un giorno, un collega che stimo mi ha detto che la scuola in Italia non è poi così sfortunata, perché abbiamo il rapporto più vantaggioso, in Europa, tra il numero di insegnanti e quello degli alunni per classe. In pratica, all’estero le classi sarebbero molto più numerose. Eppure, quando si pretende che vengano messe in atto strategie di differenziazione dell’insegnamento per recuperare il numero più grande possibile di allievi, perché bocciare e far ripetere l’anno costa troppo alle casse dello Stato, ecco che il rapporto numerico insegnanti/alunni diventa importante: dovremmo tagliare i posti nella scuola solo perché altrove funziona così?


Naturalmente è tutta una questione di soldi (e qui uso il verde dollaro). Perché i soldi non ci sono e bisogna fare di necessità virtù. Perché naturalmente il governo li spende nel migliore dei modi e chi siamo noi per sindacare? Perché i milioni spesi per il Libano, l’Afghanistan e prima per l’Iraq sono milioni ben spesi, investimenti per il futuro. Garantiranno la nostra sicurezza. Acquistare centinaia di caccia bombardieri (tra F-35 americani e Typhoon europei) significa fare scelte responsabili, oltre che umanitarie. Ampliare o raddoppiare le basi americane sul nostro territorio nazionale, contribuendo con denaro pubblico alla loro realizzazione è cosa buona e giusta, un atto dovuto, un gesto d’amicizia nei confronti dell’amico, dell’alleato. Ma soprattutto un grande investimento!


Però non voglio parlare delle spese militari. Non in questo articolo. Questa volta intendo concentrarmi sulle aziende, oggetto privilegiato delle amorevoli attenzioni dei padoaschioppa di tutto l’occidente. Quelle aziende cui, si sa, in un regime di libero mercato, bisogna concedere tutto, perché ciò che è bene per loro è bene per la nazione. Antico réfrain. E forse una volta era persino vero: forse una volta le aziende producevano ricchezza, che era ricchezza per tutto il Paese. Quando davano lavoro, quando investivano in prodotti innovativi, quando pagavano le tasse. Oggi però le aziende tendono ad adottare una tattica diversa. Delocalizzano, spostando la produzione nei Paesi del Terzo mondo, dove possono sfruttare la manodopera locale, pagandola molto meno. Per fare ciò, licenziano gli operai di casa loro, troppo costosi, troppo tutelati, o li rovinano con formule contrattuali assurde, legandoli a tempo indeterminato a un’esistenza precaria. Le nostre aziende sono pavide: non osano investire nel futuro. Preferiscono trasformare in mattoni, in cemento i loro utili, facendo incetta di beni rifugio. I nostri imprenditori si lamentano: soffrono le crisi e dunque chiedono al governo di fargli pagare meno tasse. Le aumentino agli altri, piuttosto; magari a quei maledetti dipendenti statali! E i governi concedono alle aziende gli sgravi fiscali (avete presente il cuneo?). Così il famoso “tesoretto” appena recuperato dallo Stato attraverso le entrate straordinarie della lotta all’evasione fiscale rischia di essere “devoluto” alle aziende. Altri soldi ben spesi, un altro grande investimento.


Parlerò adesso di un’impressione assai diffusa nell’opinione pubblica. Forse questo fatto mi tirerà addosso accuse di qualunquismo. Ma non dimentichiamo che oggi la politica si nutre di impressioni. È una politica molto emozionale. In fondo è in base a un’impressione (la cui infondatezza è stata poi dimostrata dai fatti) che il Presidente Bush ha accusato il defunto Saddam di avere armi di distruzione di massa e ordinato l’invasione dell’Iraq. Così avrà valore anche l’impressione del cittadino comune che qualcosa non funzioni, che si sia rotto un equilibrio, che sia venuto meno quel principio di solidarietà che un tempo garantiva, bene o male, magari anche più spesso male che bene, la crescita armonica di tutta la società. Oggi parlare di Stato sociale è considerato estremismo (più tollerata è la variante anglofona welfare, perché meno immediatamente comprensibile). Lo Stato sociale è contro il libero mercato, ci dicono. L’antica conquista maturata quando al governo c’erano i vecchi liberali e poi i democristiani è diventata una dottrina eversiva. Bisogna contenere la spesa pubblica, tagliare le pensioni, ottenere maggior flessibilità nel mondo del lavoro, ancorarsi ai parametri europei che indicano nel rapporto tra deficit e Pil la voce dell’oracolo di Delfi. Ancora una volta: bisogna sostenere le aziende, non ci sono soldi per tutto (e abbiamo appena rifinanziato l’Afghanistan!).


L’impressione diffusa, stringendo, è quella di essere presi per i fondelli. Soprattutto quando chi rimproverava certe politiche al centrodestra lo scimmiotta (quasi) in tutto e per tutto. Non sono tempi buoni per i lavoratori. Non sono tempi buoni per i cittadini. Oggi i politici giocano al gatto (e alla volpe) col topo (pardon, col cittadino). Così, per tirarci un po’ su il morale, a conclusione di questo lungo delirio, ho pensato di trascrivere una storiella che ho scritto un po’ di tempo fa. Al mio amico Ronnie non piace, ma secondo me non così brutta. S’intitola La leggenda di Doohnibòr e cerca di mettere in evidenza il meccanismo di chi ha tutto e toglie a chi ha già poco per dare qualche spiccio ancora a chi ha già tutto.

 

La leggenda di Doohnibòr

 

Molto tempo fa, nella foresta di Scèrvud, le cose non andavano tanto bene per il giovane Doohnibòr… Sciupava la paghetta e non aveva i soldi per la sua vita di scioperato. La mamma gli diceva: «Vai nella foresta a cercare tua sorella, che è andata dalla nonna e non è più tornata». Ma Doohnibòr non ne aveva voglia e se ne stava a ciondolare per casa. Un giorno, però, all’ennesimo invito della genitrice, decise che non gli sarebbe costato nulla andare a vedere cos’era stato della sorella, una svitata che indossava sempre una mantellina dal cappuccio rosso, segno inequivocabile della sua appartenenza al partito comunista. Se fosse arrivato dalla nonna, aveva pensato, magari la vecchia avrebbe sganciato qualche spiccio, così per un po’ avrebbe potuto gozzovigliare con gli amici, o almeno cambiare cellulare. Quello che aveva era vecchio di due anni e non aveva neppure la suoneria polifonica.

Così Doohnibòr entrò nella foresta. «Sta’ attento al lupo!», gli aveva gridato la mamma, ma lui aveva lanciato il suo scooter e ormai era lontano. A una svolta del sentiero, dovette fermarsi a un posto di blocco. “Gli sbirri!”, pensò. Doveva essere un controllo antiterrorismo.

«Dove va?», gli chiese il poliziotto.

«Dalla nonna», rispose Doohnibòr.

«Prima svuota le tasche e dammi i soldi che hai!», gli intimò il poliziotto, che era in realtà il lupo travestito. «Questa, lo avrai capito, è una rapina!»

Doohnibòr rimase folgorato: una rapina! Un modo per far quattrini alla svelta! Come aveva fatto a non pensarci?

«Lupo», disse al lupo, «ti ho riconosciuto! Tu sei il lupo e non un poliziotto. Ma io non ho un solo centesimo… Sappi però che sono fatto della tua stessa pasta. Ammiro ciò che fai: rubi ai poveri per tenerti tutto! È fantastico e io voglio aiutarti. Formiamo una banda, sii mio maestro!»

«D’accordo», rispose il lupo, che di fronte ai sentimenti del giovane si era commosso.

Così, da quel giorno, Doohnibòr e il lupo incominciarono a rubare dappertutto: dovunque vi fosse un bisognoso in difficoltà i due accorrevano rapaci e gli portavano via il poco che gli era rimasto.

«Perché non rubate ai ricchi?», aveva chiesto un vecchio cencioso, che si era visto portare via la magra pensione appena ritirata.

«Perché sono potenti!», aveva risposto Doohnibòr. «Se ce la prendessimo con loro ci manderebbero contro le guardie e noi finiremmo in prigione. Di voi, invece, non gliene frega niente a nessuno. Così vi possiamo derubare indisturbati… Presi singolarmente non fruttate un granché, lo riconosco. Però siete tanti e nel numero c’è speranza di guadagno»

 

Con il tempo, i due allegri compari si arricchirono moltissimo. Investirono i proventi delle rapine in varie attività, molte delle quali legali, e furono stimati e apprezzati in tutta la foresta di Scèrvud. Immagine della foresta di ScèrvudUn mattino, mentre faceva jogging, Doohnibòr incontrò una bambina che gli parve di conoscere. Da dietro uno striscione che diceva: “Tutti i ladri in galera!” faceva capolino un cappuccio rosso rosso. Il giovane imprenditore, temendo un agguato comunista, era sul punto di tornare sui suoi passi, quando si avvide che si trattava della sorella.

«Doohnibòr, vergogna!», gli disse Cappuccetto Rosso. «Tu sei il contrario di Robin Hood!» «È vero», riconobbe lui. E le scagliò contro il lupo.

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5 risposte a Sempre senza soldi

  1. sisinax scrive:

    Sono d’accordo con te, la storia è molto carina…

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