Vite precarie (2)

 

 
 
 «L’Italia
è una Repubblica fondata sul lavoro».
 E ancora: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto».
 Cito dagli
articoli 1 e 4 della Costituzione.
 
 Ma nella notte tra il 10 e l’11 aprile del 2007 io mi trovavo sull’espresso
Brindisi-Torino, un’odissea che ho raccontato altrove. Insieme a me, il «muratore di Mesagne (BR)», che «viaggia verso Modena con un collega. Stanno lavorando alla costruzione della nuova centrale idroelettrica sul fiume Secchia, a Sassuolo. Qualche giorno a casa per Pasqua, ma ora ricomincia il lavoro». La donna che mi siede accanto «è un’insegnante di Porto Cesareo (LE) e lavora in un centro territoriale di Modena. Domani sera ha lezione; sono quattro anni che fa avanti e indietro nord-sud».
 
 Si può essere immigrati nel proprio Paese. Correre dietro al lavoro.
 
 Come gli insegnanti che il 26 agosto di quest’anno hanno invaso le
Fondamenta di Cannaregio, a Venezia: piccola mandria che avanza nella luce del mattino, proveniente da ogni parte d’Italia e diretta verso l’ex macello civico, ora sede della facoltà di Economia dell’Università Ca’ Foscari. Li attende il test di ammissione ai corsi SOS (la scuola di specializzazione per insegnanti di sostegno). C’è chi viene da vicino, chi dalla Sicilia, chi è appena arrivato, chi ha dormito in qualche bed & breakfast. Neolaureati e cinquantenni avanzano tutti assieme, ancora assonnati, per conquistare l’opportunità di un’(altra?) abilitazione e ottenere, dopo sei mesi di corso e 2 mila euro di tasse universitarie, una possibilità in più per un incarico a scuola o addirittura, Dio volesse, l’ambita immissione in ruolo.
 
 «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» (art. 9 della Costituzione).
 
 2 settembre 2008. Sul quotidiano La Stampa incontro parole antiche, come «boicottaggio e sabotaggio», capaci di evocare altri tempi, quando la lotta di classe non era stata ancora ridotta a parolaccia, quando l’imprenditore e l’operaio non si trovavano «sulla stessa barca» (come assicurava Veltroni in campagna elettorale, spingendosi fino a constatare che l’imprenditore «rischia di più», perché è quello che «mette i capitali» – Veltroni ha perso le elezioni, chissà perché). M’imbatto nella vicenda di Francesca, che «ha “boicottato” gli esami di riparazione nella sua scuola di Mestre». «Precaria dal 1998, 41 anni, Francesca insegna spagnolo in due scuole». «In una non mi sono presentata per gli “esami di riparazione”», dice. «Per protesta. Non ritengo giusto un sistema che recluta il docente dal 1° settembre al 30 giugno, mese in cui lo licenzia, e poi, come nel mio caso, mi comunica che “devo” essere presente per i debiti formativi: perché “devo”? Dopo 10 anni che lavoro senza certezze, che passo da una scuola all’altra. La scelta m’è pesata: per i miei alunni sarebbe stato meglio incontrare la loro docente. Ma lo rifarei. Perché protesto contro lo smantellamento della scuola pubblica».
 
 Quello di Francesca non è un caso isolato. «Anche Fabrizio», leggo sulla Stampa, «40 anni, professore di filosofia e storia, ha deciso di “boicottare” gli scrutini nel liceo di Barletta. Licenziato a giugno, riassunto per un paio di giorni, ha scritto questa lettera al suo preside. “Gentile professore, non sarò presente ai prossimi consigli di classe di settembre […] per discutere la situazione degli alunni, la cui promozione è stata sospesa a giugno”. Spiega che si tratta di “un gesto di protesta meditato, con una precisa valenza politica”, e che non ha nessun problema con il liceo Cafiero. “Intendo protestare […] contro i meccanismi che regolano il reclutamento e la mobilità dei docenti […] Per quale motivo dovrei partecipare, all’inizio di settembre, a consigli di classi che non sono più mie? Se noi precari non serviamo, se rappresentiamo uno “spreco” da eliminare, non vedo perché ci si chiede di svolgere dei compiti in scuole in cui non siamo più in servizio”. Poi ha messo la sua lettera in rete».
 
 [Leggi l’articolo della Stampa]
 
 È ancora il 2 settembre. Sul manifesto leggo la notizia di 11 precarie, dipendenti del call center di prenotazione dell’ospedale di Legnano, licenziate con 4 giorni di preavviso dopo 6 anni di lavoro – e senza «giusta causa» – perché l’Asl ha deciso di aderire al centro prenotazioni unico per le visite e chiudere il call center dell’ospedale. «La Repubblica», dicevo in apertura di articolo, «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Ma il governo percorre un’altra strada, forse credendo che eliminare il precariato significhi fare fuori i precari. Il decreto Brunetta prevede che non ci sia il rinnovo di questo tipo di contratto per i lavoratori impiegati per più di tre anni in un quinquennio: le 11 donne possono essere licenziate e l’Asl ha via libera nel chiudere il call center. Per protesta, le 11 lavoratrici si mettono «all’asta», con un video su «You Tube»: «È una provocazione», dicono: «a questo punto vendiamo anche il nostro corpo pezzo per pezzo». Del resto, «ci hanno detto che sta succedendo la stessa cosa al call center di Melegnano»; l’attacco, quindi, è generalizzato e il lavoro precario, in Italia, sta diventando sempre più normale.
 
 Con tutti i suoi rischi.
 

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Una risposta a Vite precarie (2)

  1. TenderBranson scrive:

    abbiamo provato a raccontare le storie proprio come fai tu in questo post, in una serie di trasmissioni della scorsa “stagione”.
    quanto hai ragione.
    un saluto

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