Walter, il movimento e la voglia di governo

 Voglia di sicurezzaIl problema è che in Italia il premier non ha la forza che ha altrove. E bisogna dare «garanzia e stabilità al governo». Parola di Walter Veltroni, candidatosi alla guida del PD e, conseguentemente, a quella del Paese, quando comincerà il dopo-Prodi. Elettori permettendo. E sembra proprio questa l’istanza principale del nuovo partito di centro(sinistra): la volontà di governo e una certa propensione per il decisionismo, strumento cardine oggi, in Italia e altrove, per mascherare con cura il vuoto ideale. E mentre sui giornali si sprecano gli accostamenti tra l’aspirante leader e altri politici europei («Pd, più Sarkozy che Zapatero» sul manifesto di oggi), anche il referendum per la riforma elettorale caldeggiato da Mario Segni si pone sulla linea di pensiero per cui a decidere è meglio essere in pochi, possibilmente in due, secondo il tanto decantato modello bipartitico. Del resto, lo dice anche il proverbio: in troppi galli a cantare non si fa mai giorno Così, come antidoto all’eccessiva frammentazione del sistema, dove i piccoli partiti avrebbero una capacità di condizionamento sproporzionata rispetto al loro peso elettorale, si ripropone il modello bipolare “all’americana”, oppure il sistema francese, il cui appeal è rinvigorito dalla recente vittoria elettorale di Monsieur Sarkozy. L’importante, in un caso come nell’altro, è che si giunga alla possibilità di governare per davvero, secondo l’assioma in apparenza democratico per cui chi vince vince e chi perde perde. Sui difetti del sistema francese rimando all’articolo di Thomas Heams, pubblicato in queste pagine. Per il resto, ammetto che dover sempre mettere d’accordo il sole e la luna, entrambi inseriti nella stessa coalizione elettorale, non è per niente facile e penso che il Paese avrebbe bisogno di alleanze realmente rispettose del programma attorno al quale si sono riunite. Dover mettere assieme il parere di Tizio, di Caio e Riccardo rende arduo il cammino delle grandi riforme, come pure stabilire quale politica estera, o economica, dare allo Stato.

 Ciò detto, non si può imporre il sacrificio delle differenze sull’altare del pensiero unico. Due grandi partiti che si alternino al governo (due partiti piuttosto artificiali, in Italia, assemblati solo in virtù di sapiente operazione di marketing) potrebbero costituire un modello di maggior efficienza, ma solo al prezzo di un appiattimento delle pluralità intorno alla concezione dell’economia e della società oggi egemone, quella neoliberista. Se si prescinde da alcuni tratti caratterizzanti di tipo, per così dire, personale, infatti, non si capisce quali siano le differenze di fondo tra un Prodi e un Berlusconi, a parte la considerazione – ovvia – per cui uno dei due candidati è estremamente più dannoso dell’altro. Voglia di maniere fortiIl Presidente americano Bush si è dimostrato più pericoloso per il mondo del suo predecessore. Romano Prodi non ha alle spalle il gigantesco conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi. Entrambe queste affermazioni sono vere, ma il modello (anzi, le lobby) di riferimento degli uni e degli altri è grosso modo il medesimo. E questo vale, dove più, dove meno, per tutto il mondo occidentale. Anche i partiti che potremmo definire “di alternativa” tendono, da un lato, a integrarsi nel sistema (dico che tendono a sacrificare l’ideale alle esigenze “di casta”, al desiderio di perpetuare il potere). Dall’altro lato, ciò che più importa, appaiono pronti a piegarsi alle esigenze di coalizione (fino – è il dubbio – a interiorizzarle), forse nel nome della governance, ma sicuramente non in quello della loro base popolare, come dimostra il distacco sempre crescente tra il mondo della politica e i cittadini, l’universo delle comunità locali in lotta per difendere un ideale o il loro territorio. È un tema, questo, molto importante, oggi riconosciuto da tutti, da Massimo D’Alema, per il quale l’allontanamento del cittadino dai partiti equivale alla fine della politica, fino a Luca Casarini, per cui il movimento, più volte tradito, anche dagli “amici”, ha cominciato una lotta politica autonoma.In questo contesto, il desiderio di governance rischia di mettere i partiti “di alternativa” contro la loro stessa base, che vede tradite le proprie aspettative (e molto spesso, più semplicemente, il programma elettorale). È naturalmente il caso di Vicenza, dove le ultime elezioni hanno segnato la disfatta di tutta la sinistra, ma non bisogna neppure sottovalutare un dato in apparenza più modesto, come il fallimento del meeting antibushiano di Piazza del Popolo, a fronte della grande partecipazione popolare al corteo contro Bush e contro il governo Prodi, che ha attraversato il centro di Roma lo scorso 9 giugno. Alla fine della manifestazione, tra i vari oratori che si sono alternati sul palco di piazza Navona, ho ascoltato con particolare attenzione Marco Ferrando, del Partito comunista dei lavoratori e Luca Casarini del Global Project. Il primo si è abbandonato all’entusiasmo per la riuscita della giornata e ha auspicato la nascita di una rappresentanza politica dell’enorme movimento che ha portato in piazza centomila manifestanti soltanto a Roma. Luca Casarini e Marco FerrandoSenza troppa malizia, è possibile ipotizzare che Ferrando abbia in mente una sorta di autocandidatura del proprio partito come forza politica capace di aggregare attorno a sé il mare magnum dei sostenitori di un mondo “altro” e “possibile”.Casarini, invece, ha espresso un auspicio di segno diverso, se non addirittura opposto, rivendicando autonomia al movimento e individuando nella tentazione di una sua istituzionalizzazione il male da combattere. Tra queste due posizioni è possibile, forse, mediare, immaginando un movimento indipendente che non rompa, però, tutti i contatti con la politica “ufficiale”, pena la sopravvivenza, all’interno delle istituzioni, dei soli partiti “massimalisti” (Forza Italia e affini e, naturalmente, il nascente Partito democratico). Nonostante il tradimento consumato (e iterato) dai partiti “di alternativa”, infatti, un appiattimento ideologico sul modello socio-economico dominante non servirebbe a nulla e farebbe il gioco di chi, a livello istituzionale, ha il compito di prendere le decisioni e di imporle, nel caso, con la forza. È concepibile che il movimento s’incarichi di “rieducare” la casta politica, dirottando in massa i propri voti su uno o più piccoli partiti, minoritari finché si vuole, ma non ancora omologati? Forse, a quel punto, anche a Roma qualcuno saprebbe prendere atto del fatto che il distacco tra politica e società potrebbe essere colmato attraverso il confronto e l’interiorizzazione (reale) di alcune battaglie da parte di chi, rappresentante, dovrebbe rappresentare il cittadino.


 Articoli correlati: Sul sistema francese Martinetti “spiega” Sarkozy; sulla necessità di riformarlo l’articolo di Thomas Heams; sull’appiattimento delle varie forze politiche intorno a un unico modello, ironicamente, il commento di Birrbenza; vedi le foto del corteo di Roma.

Questa voce è stata pubblicata in Politica. Contrassegna il permalink.

2 risposte a Walter, il movimento e la voglia di governo

  1. davide scrive:

    ciao mario sono davide, tuo nipote.Bella la foto del carroarmato!

  2. Mario scrive:

    Sono contento che ti piaccia, è un abile fotomontaggio di un carro armato giocattolo di tuo fratello, con dietro una cartolina… Vedrò di stupirti con nuovi trucchi fotografici!

I commenti sono chiusi.