Incontro con Tariq Ramadan

 Tariq Ramadan e Alex Glarey (Aosta, espace populaire)
 Ieri sera, all’espace populaire di Aosta, si è svolto un incontro con Tariq Said Ramadan, intellettuale e professore universitario, sul tema La globalizzazione neoliberista, strategie di resistenza e l’islam. Ramadan, svizzero di origine egiziana, è cresciuto e si è formato in Europa, per poi studiare scienze islamiche al Cairo. Accettando il rischio di utilizzare toni un po’ retorici, lo si potrebbe definire un anello di congiunzione tra due culture diverse, che oggi troppo spesso sono contrapposte in maniera strumentale dalla politica e dai media. Il discorso di Ramadan e la chiacchierata che ne è seguita hanno preso le mosse dal sistema economico mondiale e dalle possibilità di resistere a un liberismo che uccide, ma poi, inevitabilmente, abbiamo finito per mettere a confronto due universi, occidente e islam, che oggi s’incrociano continuamente, senza per questo conoscersi davvero.
 La premessa del discorso, per Ramadan, è la necessità di decentrarsi dal proprio universo di riferimento per entrare in quello dell’altro. La comprensione ha bisogno di fiducia, e infatti una delle più grandi battaglie di oggi è rispondere a quelli che diffondono la paura. Spesso, parlando d’islam, di musulmani o d’immigrati, molti perdono ogni razionalità e si può dire che, a destra come a sinistra, regni la sordità nei confronti dell’altro e delle sue istanze: noi ci sentiamo progressisti sempre, soltanto perché lo siamo nel nostro sistema di riferimento.
 Oggi si dice che l’economia neoliberista e la globalizzazione stiano vivendo una crisi strutturale. Alcune voci, in questo momento, non sono molto lontane da una critica marxista dell’economia, anche se poi, di fatto, si scopre che il vero vincitore del G 20 di Londra è il Fondo Monetario Internazionale. Si comincia a parlare di un’etica della struttura, insomma; non per questo si mettono in discussione le finalità del sistema. Quando Sarkozy parla di etica in economia, si propone di evitare gli eccessi del sistema, non di rivederne gli obiettivi. Ramadan si proclama «resistente» all’ordine economico mondiale, un apparato terrorista che ogni giorno produce migliaia di morti. Resistere, però, non vuol dire adattarsi al sistema, significa trasformarlo.
 In tutto ciò, non esiste un punto di vista dell’islam. In America del Sud la teologia della liberazione è estremamente critica nei confronti del liberismo. Non è così per l’islam: un musulmano conservatore in religione può essere al tempo stesso liberista in economia. Gli Usa non hanno alcun problema con l’Arabia Saudita, un Paese fra i più conservatori dal punto di vista religioso. Che voi seguiate il Corano alla lettera, tagliate una mano a chi ruba, non siate in alcun modo democratici non ha nessuna importanza… se avete il sistema economico “giusto”! Otto mesi fa c’è stata una lapidazione in Afghanistan: non se n’è parlato, perché l’Afghanistan è un Paese nel quale gli Usa hanno "portato la democrazia". Nel mondo islamico, le monarchie del petrolio hanno accettato le regole dell’economia mondiale, che importanza ha se poi tagliano la mano a un ladro? Ramadan dice che esistono diverse correnti nel mondo islamico e che ci sono alleanze potenziali per una resistenza comune. Ma il capitalismo islamico è sempre capitalismo. In Malesia è nato il Mac Donald’s islamico, ma dietro c’è sempre la stessa filosofia.
 Nell’agire umano, ciò che è davvero importante sono le finalità: è dunque necessario sottoporre l’economia alle finalità appropriate, metterla al servizio dell’essere umano. C’è bisogno di una vera politica economica. A questo proposito, alcuni principi dell’islam possono rivelarsi utili. Nell’etica economica musulmana, ad esempio, è vietato far soldi con i soldi, ovvero dev’esserci sempre l’intermediazione dello scambio di una merce: fare affari nel mondo musulmano significa commercio, non speculazione. Il fine, però, non potrà essere quello di ottenere gli stessi risultati con metodi diversi, altrimenti ci troveremmo al punto di partenza. Il terzo pilastro dell’islam [il terzo dei 5 doveri che valgono per tutti i credenti musulmani] è la Zakat, l’obbligo di dare il 2,5% dei propri beni ai bisognosi. Si tratta di un elemento molto importante, perché la Zakat si rivolge ai poveri del luogo in cui si vive e perché è intesa come un aiuto responsabilizzante. Attraverso la Zakat, insomma, non s’intende fare l’elemosina, ma partecipare ai programmi attivi in un territorio per favorire l’emancipazione economica delle persone più povere. Fare la Zakat significa, anzitutto, conoscere il luogo in cui si vive, le realtà che vi operano, sapere chi sono le persone bisognose d’aiuto.
 La resistenza all’ordine economico mondiale non si limita a pochi esempi celebri. Tutti conosciamo la storia dell’America latina, ma dappertutto esistono Che Guevara. L’Africa e il Medioriente sono meno conosciuti: continueremo a ignorarci o comprenderemo che possiamo lottare per un obiettivo comune?
 Ramadan risponde ad alcune domande. A chi gli chiede che cosa pensi dell’elezione di Obama, dice che dopo 8 anni di Bush si tratta senz’altro di un cambiamento positivo, ma che non crede che il nuovo presidente americano abbia un gran margine di manovra in molte delle questioni che pure ha detto di voler affrontare. Ad esempio, è rimasto in silenzio durante il bombardamento di Gaza. Se poi vi fosse un attentato negli Usa, il margine si restringerebbe ancora di più. Ma se dalla politica e dalle questioni etiche passiamo all’economia, il margine di manovra di Obama è praticamente nullo.
 C’è ancora lo spazio per un approfondimento sul tema della libertà di espressione, sacrosanta, secondo Ramadan, a patto che valga per tutti. Il professore ricorda che per 32 volte gli è stato impedito di tenere conferenze in Francia, per 3 volte in Belgio e una volta in Italia (proprio qui da noi, all’Università della Valle d’Aosta, per intervento dell’allora Presidente-prefetto Luciano Caveri), mentre un’altra volta – sempre in Italia – ha dovuto raggiungere la sala sotto scorta. In un’Europa nella quale tutto ciò può accadere, scoppia un polverone sul diritto di un giornale danese di pubblicare vignette satiriche che prendono di mira l’islam. Ramadan è in entrambi i casi a favore della libertà di espressione, ma si domanda anche quali sono i diritti che difendiamo. Sono diritti a geometria variabile. La libertà d’espressione dev’essere invece per tutti: secondo Ramadan, ad esempio, il governo inglese ha sbagliato a non permettere a Geert Wilders, regista islamofobico olandese autore del film Fitna, di proiettare il proprio lavoro alla Camera dei Lord. Gli hanno permesso di trasformarsi in vittima e di farsi un sacco di pubblicità: oggi viviamo in un epoca di vittimismo diffuso, una maniera comoda per sottrarsi alle proprie responsabilità.


 Nella foto, Tariq Ramadan e Alex Glarey all’espace populaire di Aosta.

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2 risposte a Incontro con Tariq Ramadan

  1. Bisogna stare attenti. Da decenni si parla di etica dell’economia. Non esiste. Etica in funzione di che? Di chi?
    Quando si parla di mettere mano, eticamente, alla struttura dell’economia, vuol dire passare una patina di lucido sopra la ruggine (che rimane).
    E se si parla di etica… che tipo di etica?
    Ormai si è capito che l’economia è la trappola del mondo e le sue regole servono a quei pochi che detengono il potere. Parlare di etica è un assurdo.

  2. Mario scrive:

    Ho dovuto tradurre in articolo appunti presi velocemente… in francese!, quindi forse non sono stato chiarissimo. Ramadan è perfettamente d’accordo con te (e anch’io) quando dice che i grandi del mondo stanno cercando di apportare semplici correzioni strutturali, lasciando invariate le finalità del sistema economico. Perciò l’etica economica non esiste. Ramadan a un certo punto ha parlato di etica musulmana, che può suggerire qualche modifica in economia, ma ha messo in guardia anche contro il capitalismo islamico… Condivido ciò che dici: «l’economia è la trappola del mondo e le sue regole servono a quei pochi che detengono il potere». Sono riuscito a riportare meno la parte in cui Ramadan parla di unire le esperienze di resistenza.

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