Io non sono in guerra – di Hervé Kempf (Reporterre)

Continuo a rimandare un post più articolato sui fatti di Parigi, sul JeSuisCharlie, sulla libertà di espressione.

Nel frattempo, ho tradotto un editoriale di Hervé Kempf, tratto dal sito Reporterre, che ho trovato molto interessante. L’articolo è condivisibile secondo quanto previsto dalla licenza CreativeCommons attribuzione-non commerciale-nessuna modifica.

QUI l’originale in francese.

Io non sono in guerra
di Hervé  Kempf (Reporterre)

mercoledì 14 gennaio 2015

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Dipenderà senz’altro dall’essere cresciuto (tra le altre letture) a Charlie Hebdo, all’epoca in cui il giornale non era ossessionato dall’islam, ma l’immagine dell’Assemblée intenta a cantare con voce virile La Marsigliese per spargere «un sangue impuro», l’applauso fragoroso della polizia, la lettura del discorso di Manuel Valls costellato di «barbarie», «guerra» e altre misure eccezionali contro il terrorismo, tutto ciò suscita un sentimento a metà strada tra il disagio e il conato di vomito. Come se la classe politica e mediatica rubasse l’espressione popolare di domenica, che metteva innanzitutto in primo piano la libertà di espressione, le matite, la parola.

Tutte quelle persone, domenica, volevano soltanto poliziotti, soldati per le strade, ordine, autorità, epurazione, guerra? Bene, se fosse così non sarei d’accordo con loro.

Malessere immenso nel non sentire quasi altro se non le parole polizia, caccia all’uomo, informazioni, prigione, isolamento, protezione. Malessere immenso nel vedere diecimila soldati dispiegati, oltre a quelli che girano per le strade già da qualche anno. Non si trovano lì per proteggere nessuno – hanno forse impedito gli omicidi del 7 gennaio? – ma per abituarci a trovare normale che ci siano soldati per strada. Come in uno… Stato militare, uno Stato di polizia.

Malessere immenso per l’assenza quasi totale di riflessione, nel senso dell’esame di sé. Come se non si trattasse che di un pericolo esterno, straniero, indicibile. Malessere immenso di fronte all’incapacità di formulare questa semplice domanda: che cosa ha condotto Kouachi e Coulibaly a commettere simili atti? L’incapacità di ricordare due semplici fatti: quegli uomini erano francesi. Sono nati dal seno di questa nazione ora celebrata con parole di vendetta. E poi quest’altro fatto semplice, che ha ricordato Stéphane Lavignotte: «Gli assassini hanno fatto qualcosa di inumano, di mostruoso. Ma restano degli umani». Sì, sono umani, e non si sente quasi nulla, in questi giorni, che ci aiuti a riflettere su cosa spinga degli umani a commettere simili atti.

Io non so. Ma so che non sapremo mai se, ossessionati dai poliziotti, la guerre, le prigioni, non parleremo di scuole, di città, cultura. Di radici, di sradicamento, esclusione, solitudine, legami sociali.

E quando sento i politici parlare all’unanimità di guerra – Manuel Valls: «La Francia è in guerra contro il terrorismo, lo jihadismo e l’islamismo radicale» – ricordo che c’è un’altra guerra, descritta senza imbellettamenti dal miliardario Warren Buffet: «Sta andando tutto molto bene per i ricchi di questo Paese, non siamo stati mai così ricchi. È una guerra di classe, ed è la mia classe che sta vincendo». Davvero non c’è nulla, neanche un sottile collegamento tra il crimine di Kouachi e i politici sostenuti da Bolloré, Arnault, Pinault, Dassault, Mulliez? Nessuna relazione tra la crescita dell’«islamismo radicale» e il fatto che 85 persone possiedano tanto quanto tre miliardi di altri esseri umani? Nessun collegamento con il perseguimento ostinato delle politiche neoliberiste e lo stato di abbandono della scuola, dei sistemi sanitari, dei quartieri?

È in corso una guerra dei ricchi contro il resto della popolazione. E bisogna formulare la domanda sconveniente se una parte della popolazione non stia rispondendo in una maniera non prevista dai trattati rivoluzionari.

E poi, sentire quei deputati bianchi, maschi, francesi, comportarsi come se ci avessero dichiarato la guerra. Ma, alla fine, chi è che fa la guerra a chi? Chi ha iniziato questo gioco folle? Chi ha truppe in Mali, nell’Africa centrale, in Iraq? Chi è stato zitto quando lo Stato di Israele ha condotto una guerra spietata a Gaza, lo scorso luglio, uccidendo 1800 palestinesi, il 65% dei quali composto da civili? Chi è intervenuto in Libia nel 2011? E quante persone sono state uccise dai droni di Obama? Eccetera eccetera in questo elenco infinito: non dobbiamo qui, in poche righe, stabilire colpevoli e vittime, ma ricordare che è impossibile determinare chi ha ragione e chi ha torto in guerra, perché i torti sono condivisi.

E dunque bisogna poter dire: no, io non sono in guerra; no, io non penso che il problema islamico sia il più serio di quest’epoca; no, io non ammetto un’unanimità volta a coprire una stupefacente ineguaglianza; no, io non penso che abbiamo bisogno di più poliziotti e prigioni.

E sì, posso dire: Vogliamo la pace; pensiamo che il problema più grave oggi è la crisi ecologica; ritroveremo l’unità solo quando avremo ridotto le disuguaglianze; abbiamo bisogno di più artisti e più scuole.

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