Palestina. Perché non possiamo essere equidistanti

Gli appelli dell’Occidente al «dialogo tra le due parti», palestinesi e Israele, fa pensare, come scrive Luciana Castellina sul manifesto del 30 luglio, al contrasto «tra due monelli litigiosi cui noi civilizzati dobbiamo insegnare le buone maniere». La mattanza di Gaza impone invece la presa di posizione per una delle due parti: come mettere sullo stesso piano le poche vittime israeliane con i palestinesi uccisi a centinaia? Ieri sono state superate le 1200 vittime, molte delle quali civili, tantissimi i bambini. Come considerare altro, invece di questo?

Tutti i ragionamenti dovrebbero partire di qui: dalle vittime, che sono quasi tutte dalla stessa parte. E dai sopravvissuti. Un Paese in piena efficienza da una parte, una Striscia di terra martoriata dall’altra, senza neppure più l’energia elettrica per gran parte della giornata; e non per cause naturali.

Tutti i ragionamenti dovrebbero partire dalla richiesta più ovvia: la fine del massacro, Hamas o non Hamas, razzi Qassam o meno. Israele ha il dovere di fermare il suo esercito, non solo per la sproporzione tra il pericolo costituito dai razzi per la sicurezza della propria popolazione e il numero delle vittime, oltre all’immanità della distruzione, presso i palestinesi; dovrebbe fermare il massacro perché il diritto alla difesa in qualche modo viene dall’essere nel giusto, e questo non è il caso di Israele.

Non è “nel giusto” infatti chi da decenni blocca qualsiasi processo di pace rifiutando di restituire le terre occupate con la guerra nel lontano 1967. Chi da decenni ignora le risoluzioni dell’Onu che gli imporrebbero il ritiro. Chi non ha mosso un dito per fermare la creazione di sempre nuove colonie in casa d’altri. Chi tiene Gaza sotto un embargo illegale almeno quanto i tunnel scavati dai miliziani di Hamas (tunnel che, a ben vedere, sono la risposta all’embargo). Chi ha consapevolmente costruito l’impossibilità della nascita di uno Stato palestinese sovrano e poi si stupisce se i palestinesi scelgono la via della violenza, fuori dal controllo delle “autorità” di Ramallah, quando tutte le altre vie si sono dimostrate impraticabili.

Occorrerebbe, l’ho scritto meglio QUI, fare uno sforzo di immaginazione e di onestà. La questione la pone anche Luciana Castellina, citata in apertura: «e però io mi domando: se fossi nata in un campo profughi della Palestina, dopo quasi settant’anni di soprusi, di mortificazioni, di violazione di diritti umani e delle decisioni dell’Onu, dopo decine di accordi regolarmente infranti dall’avanzare dei coloni, a fronte della pretesa di rendere la Palestina tutt’al più un bantustan a macchia di leopardo dove milioni di coloro che vi sono nati non possono tornare, i tanti cui sono state rubate le case dove avevano per secoli vissuto le loro famiglie, dopo tutto questo: che cosa penserei e farei? Io temo che avrei finito per diventare terrorista».

E questo è il cuore della questione, assieme e ancor prima dell’orrore delle centinaia di vittime civili: la guerra di Israele non è soltanto “sproporzionata”, è ingiusta, perché serve a perpetuare un’ingiustizia che andrebbe invece rimossa. Solo così Israele potrebbe guadagnarsi quel “diritto a difendersi” che già oggi molti fanno a gara per riconoscergli.

Ma annoverare tra i cattivi i governi di Israele significa essere accusati di antisemitismo, di odio verso Israele o, tutt’al più, di essere ingenui e vittima della propaganda di Hamas. Il che è un ottimo sistema per evitare qualsiasi confronto reale in termini di ragionamento. Magari per lasciare la parola alla violenza, anche fuori del teatro di guerra, com’è recentemente successo in Italia, nel corso di manifestazioni per la Palestina che sono state occasione di aggressioni da parte dei sostenitori del diritto di Israele alla difesa.

>>> Leggi anche l’articolo Palestina. Perché non possiamo essere equidistanti #2.

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